Pino Rinaldi: quarant’anni di cronaca verso l’ignoto... X
Da quarant’anni è uno dei volti più autorevoli del giornalismo investigativo italiano. Pino Rinaldi da qualche settimana è tornato in tv con “Ignoto X” su La7, dove racconta la cronaca nera con il rigore e l’umanità che da sempre lo contraddistinguono: “Un delitto va analizzato, studiato e inteso come chiave interpretativa della realtà”
Tra indagini, indizi e intrecci che svelano molto più di quanto sembri, Pino Rinaldi è da 40 anni uno dei volti più autorevoli del giornalismo investigativo italiano. Cronista attento e rigoroso, ha raccontato alcuni dei casi più complessi della nostra storia recente, sempre con uno sguardo lucido e rispettoso. Oggi è alla guida di “Ignoto X”, il nuovo programma quotidiano collegato al Tg La7, diretto da Enrico Mentana, dove la cronaca diventa strumento di comprensione del presente. Per Rinaldi, infatti, “Un delitto va analizzato, studiato e inteso come chiave interpretativa della realtà”.
Secondo lei, perché la cronaca nera in televisione è un genere che affascina così tanto il pubblico? È una curiosità che nasce dalla paura, dal bisogno di capire o da altro?
Da tutte e tre le cose, da una naturale curiosità umana. Un fatto di cronaca nera è un evento così forte che non può passare inosservato. Davanti a qualcosa di così estremo si cerca di capire, di dare un senso. Allo stesso tempo, c’è anche il bisogno di sapere di più. I media, la televisione, e oggi le tecnologie digitali, riproducono una realtà che è stata sempre presente nella vita degli esseri umani: da sempre, le persone si ritrovano a parlare di ciò che accade. Pensiamo ai piccoli paesi, dove ci si incontra al bar o in piazza e si discute del “fattaccio” del giorno. Quello che io cerco di fare, anche grazie all'esperienza che ho acquisito durante questi decenni, è raccontare in maniera diversa i fatti la cronaca nera, cercando di utilizzarla per comprendere meglio la nostra società. Leggendo la natura di certi crimini.
Le sue trasmissioni riescono a coinvolgere senza mai cadere nella morbosità. Come si riesce a mantenere questo equilibrio?
Con un atteggiamento serio e rispettoso, ma soprattutto evitando meccanismi televisivi come quelli dello scontro che, secondo me, producono un risultato pari allo zero. Anche per questo per “Ignoto X” abbiamo totalmente evitato la presenza degli opinionisti. Chi sono, in fondo, gli opinionisti? Spesso sono volti noti della televisione, persone che hanno costruito la propria carriera nell’intrattenimento e che, improvvisamente, si riciclano sulla scia del successo della cronaca nera. Ma che cosa aggiungono davvero alla comprensione dei fatti? Quasi nulla. Quello che noi facciamo, sostanzialmente, è privilegiare il racconto dei fatti, cercando di capire perché avvengono, senza indugiare sui particolari, che poi è quello che ho sempre cercato di fare. Infatti, quando Enrico Mentana mi ha chiamato per condurre “Ignoto X”, e lui per primo mi ha fatto questo discorso, ci siamo trovati subito. Un’altra cosa che evitiamo alla grande è la “soapcrime”, questo nuovo genere televisivo che quotidianamente torna su uno stesso caso con appostamenti sotto casa dei personaggi coinvolti, alle volte addirittura con inseguimenti, una cosa che per me non ha senso.
In base alla sua esperienza, c’è stato negli anni un cambiamento degli eventi delittuosi?
Posso dire che nel corso degli anni si sono sempre di più verificati i delitti frutto dell'impeto. Un esempio può essere quello di un uomo che ammazza la moglie, poi figli e poi magari si toglie la vita. Lì si apre un mondo, si svela una realtà che mostra l'incapacità di contenere l'impulso dell'uomo contemporaneo, descritta perfettamente da Zygmunt Bauman con la “società liquida”, che analizza anche la reazione che producono certi eventi rispetto alla richiesta di una legge più ferrea, più dura. Ma non è quella la strada, un delitto va analizzato, studiato e inteso come chiave interpretativa della realtà. Questo è il dato fondamentale.
Dietro ogni puntata c’è un’enorme mole di ricerca e verifica. Eppure, con “Ignoto X”, è passato da appuntamenti settimanali a un ritmo quotidiano. Come si riesce a garantire qualità e rigore in tempi così serrati?
A volte il tempo a disposizione per raccontare e spiegare certe cose è insufficiente. A parte questo, abbiamo una redazione composta da un nutrito numero di persone e abbiamo anche l’appoggio della redazione del Tg La7. Questo ci permette di lavorare bene, ma le dico questo: la qualità è una scelta. Non si può costruire un programma mettendo di fronte un giornalista che la pensa in un modo, con un giornalista, o un opinionista, che la pensa nell'altro, dando “fuoco alle polveri” e scatenando liti che alla fine non portano a nulla. Non è quello che faccio. Io cerco di comprendere un dato avvenimento attraverso il dialogo con i protagonisti e l’analisi dei fatti.
Nelle sue trasmissioni, ad esempio in “Detective”’, spesso collabora con le forze dell’ordine. Com’è cambiato nel tempo questo rapporto?
“Detective” era frutto di una collaborazione importante tra Rai e Polizia di stato ed era un programma costruito su alcune storie in cui andavamo a ricostruire indagini, casi risolti e casi irrisolti. “Ignoto X” è un altro tipo di programma e, quindi, c’è un altro tipo di rapporto anche con le forze dell’ordine. Continuiamo però a collaborare, soprattutto quando trattiamo casi irrisolti ai quali io sono molto legato. Molte persone mi scrivono chiedendo aiuto in questo senso. Noi allora studiamo le carte, verifichiamo e cerchiamo di dare spazio a questi casi perché, secondo me, la televisione deve avere anche questa funzione. Non possiamo tenere i fari accesi soltanto sul caso Garlasco, per citarne uno. Anche altre famiglie hanno lo stesso diritto e sicuramente l’attenzione mediatica può far sì che chi è preposto a produrre un’inchiesta lo faccia sapendo che ha gli occhi puntati e quindi è oggetto di massima attenzione. Tutto questo però sempre nel rispetto di chi indaga. Ognuno deve fare il suo, io non prenderei mai il posto di un magistrato come vedo in certi programmi dove il conduttore sembra l’organo inquirente. Noi poniamo delle domande e cerchiamo di ragionare e di approfondire insieme a loro.
Guardando a questi quarant’anni di attività, quale immagine dell’Italia emerge dai casi che ha raccontato? Ci sono tratti ricorrenti che ci aiutano a capire meglio il nostro Paese?
Abbiamo perso, secondo me, la dimensione valoriale. Dovremmo chiederci quale ruolo abbiamo nella società, quale progetto dobbiamo mettere in atto e costruirlo con responsabilità nei confronti delle nuove generazioni e, soprattutto, dei più deboli. Tutti questi valori, che per me rappresentano il cuore della civiltà occidentale, li abbiamo un po’ abbandonati. Sono stati sostituiti da un desiderio che negli anni ’70 veniva espresso con lo slogan “tutto e subito”. C’è un bellissimo libro di Umberto Galimberti, intitolato “Psiche e techne”, che descrive come la cultura tecnologica va a sostituire quelle umanistica e risponde semplicemente a un imperativo che è quello del “basta che funzioni” senza preoccuparsi di come si raggiunge un dato obiettivo.
Nel suo ultimo libro, “Il mostro di Firenze. La verità nascosta”, affronta uno dei casi più discussi della storia giudiziaria italiana. Cosa l’ha spinta a tornare su questa vicenda e quali aspetti ritiene siano stati più fraintesi o trascurati nel corso degli anni?
Io dico sempre che il caso del “mostro di Firenze”, per chi fa il mio mestiere, è come una tesi di laurea: dentro c’è tutto. C’è quello che ritroviamo nei casi come quello di Garlasco, nella strage di Erba e in molti altri, e ci sono i conflitti tra magistratura e forze dell’ordine, ma nel mostro di Firenze tutto è amplificato, a partire dalla natura stessa dei delitti. Questa storia, per molte ragioni, è arrivata a sentenze che ho sempre contestato apertamente, anche quando eravamo soltanto in tre a sostenere che i cosiddetti “compagni di merende” non fossero i veri responsabili: io, Mario Spezi e Nino Filastò. Mario fu persino arrestato, e io stesso venni rinviato a giudizio insieme a lui e ad altri. Oggi, però, molti condividono quella nostra convinzione. Il libro che ho scritto con Nunziato Torrisi non racconta solo la cronaca, ma spiega come funzionano davvero indagini e processi. Nell’analisi che proponiamo, non ci limitiamo a contestare ciò che è stato fatto: indichiamo una pista alternativa, una verità nascosta che per ragioni che scoprirete leggendo è stata accantonata, la cosiddetta “pista sarda”, che io considero la più credibile, anche se qualcuno ha preferito far credere che la verità fosse un’altra.
Negli ultimi anni scienza e tecnologia hanno rivoluzionato il modo di indagare: dalle analisi forensi al digitale, fino all’Intelligenza Artificiale. Quanto questi strumenti sono entrati nel suo lavoro e quanto possono incidere davvero nella ricerca della verità?
Grazie alla scienza e alla tecnologia oggi è possibile raggiungere risultati che in passato non era possibile raggiungere. Questo è un fatto assolutamente positivo e quindi ben vengano scienza e tecnologia. Attenzione però che il dato scientifico è importante, ma deve essere letto all'interno di un'indagine classica. Quello che io sto scoprendo nei tanti casi che tratto è proprio la carenza dell'indagine classica, che invece è fondamentale. È come se ci fosse l'illusione di una scienza e una tecnologia capaci di tutto e di più. Come se potessero risolvere un caso meccanicamente. Il dato scientifico aiuta, fissa orari, dati, informazioni precise, ma per ricostruire tutto e capire veramente come stanno le cose, serve una scienza diciamo tutta quanta “umana”, costruita sulle scarpe di chi indaga e fa bene il suo lavoro.