Longevi, ma in salute
Vivere a lungo è un obiettivo importante, che molte persone riescono a raggiungere nel nostro Paese, dove i centenari sono infatti numerosi. Ma altrettanto importante è condurre la vecchiaia in buona salute, una condizione che invece in Italia non è altrettanto diffusa. Con Michela Matteoli, direttore dell’Istituto di neuroscienze del Cnr, vediamo quali sono i fattori che contribuiscono a danneggiare il nostro benessere e cosa fare per contrastarli
Gli italiani sono tra i popoli più longevi. Secondo i dati Istat, al primo gennaio 2021 i centenari residenti in Italia sono 17.177, l’83,4% dei quali è costituito da donne. Per scendere ancor più nel dettaglio, sono 1.111 gli individui residenti che alla stessa data hanno raggiunto e superato i 105 anni di età, mentre 17 donne hanno raggiunto e superato i 110 anni di età. Per quanto riguarda invece la distribuzione, la maggior parte delle persone di almeno 105 anni di età risiede nel Nord Italia: 284 nel Nord-ovest e 243 nel Nord-est, al Sud sono 238, al Centro 225 e nelle isole 121.
Si tratta indubbiamente di cifre notevoli, ma se si prende in considerazione la durata della vita sana, l’Italia scende al quindicesimo posto nella classifica mondiale. Tra i disturbi più comuni in età avanzata ci sono le malattie dell’apparato muscolo-scheletrico, le patologie cardiovascolari, quelle respiratorie, il diabete. E tutte peggiorano la qualità della vita degli anziani, come forse ancor di più fanno le patologie dalla demenza alla malattia di Alzheimer, che colpiscono il cervello, il cui cattivo funzionamento impatta pesantemente sulla vita dei pazienti, ma anche su quella dei loro familiari.
In questo ambito sono molte le ricerche che si stanno conducendo per comprendere come intervenire e cosa fare per permettere di vivere un’esistenza in buone condizioni anche se si è avanti con gli anni. Di questo e di quanto sta facendo il Cnr in questo settore abbiamo parlato con Michela Matteoli, direttore dell’Istituto di neuroscienze (In) del Consiglio nazionale delle ricerche.
“La connessione tra il cervello e il resto del corpo - brain-body connection - è importantissima in tutti gli stadi della nostra vita. E, come per il resto dell’organismo, anche per il cervello il punto debole è l’infiammazione cronica. In questi anni, nei nostri laboratori, come in moltissime altre strutture internazionali, si è capito che l’infiammazione può attaccare la sinapsi, modificando l’espressione di alcune proteine essenziali al suo funzionamento, può alterare la formazione dei circuiti neuronali e può intaccare le capacità del nostro cervello, esattamente come danneggia il cuore e gli altri organi del corpo”, precisa Matteoli. “L’infiammazione, per fare un esempio, è una caratteristica tipica della malattia di Alzheimer, la cui incidenza aumenterà moltissimo nei prossimi anni a causa dell’invecchiamento della popolazione”.
Intervenire quando la patologia è già presente è per la demenza, come anche per le altre malattie, poco efficace; fondamentale è invece “giocare d’anticipo”, fare in modo che il disturbo non compaia, o che comunque si manifesti il più tardi possibile, garantendoci così un benessere il più possibile prolungato. Anche perché attualmente esistono solo farmaci in grado di attenuare i sintomi ma non guarire le patologie neurodegenerative. È importantissimo adottare strategie di prevenzione, seguendo stili di vita corretti, se infatti una mutazione ereditaria associata a una malattia neurodegenerativa, o una mutazione de novo, porterà quasi inevitabilmente, in un periodo più o meno lungo, a un processo neurodegenerativo, non c’è dubbio che in presenza di infiammazione il danno si instauri più velocemente. In altre parole, le complesse interazioni tra geni e ambiente, insieme all’invecchiamento del sistema immunitario, possono creare la tempesta perfetta per l’insorgenza di una malattia neurodegenerativa”, continua la ricercatrice.
Proprio sulla prevenzione, oltre che sui meccanismi molecolari delle patologie la cui identificazione è necessaria allo sviluppo di nuovi farmaci, si sta concentrando un gran numero di studi. “Negli ultimi anni, grazie alle molte ricerche condotte, è stato possibile identificare per esempio i processi cellulari e molecolari attraverso cui cibi a elevata capacità antinfiammatoria e antiossidante - per esempio quelli che contengono polifenoli, tra cui i flavonoidi, come tè verde, cacao e cioccolato fondente, frutti di bosco, agrumi, cavoli, broccoli - possono ridurre il carico infiammatorio sia per il nostro organismo che per il nostro cervello”, spiega il direttore del Cnr-In. “Inoltre, ormai sappiamo nel dettaglio che il movimento, se svolto regolarmente, riduce l’infiammazione e aumenta nel cervello la produzione di un fattore neurotrofico, il BDNF (BrainDerived Neurotrophic Factor), che facilita la creazione delle sinapsi e rende i circuiti cerebrali più plastici. Senza contare che imparando, leggendo, studiando, apprendendo una lingua straniera o suonando uno strumento musicale si costruisce quella che viene definita riserva cognitiva, un patrimonio da cui il nostro cervello attinge nel momento in cui si instaura una situazione di neurodegenerazione, per ritardare l’insorgenza dei danni cognitivi”.
Su questo specifico aspetto, l’Istituto di neuroscienze del Cnr ha messo a punto Train the brain, un programma di allenamento del cervello, in grado di rallentare il passaggio da declino cognitivo lieve ad Alzheimer manifesto. “L’allenamento proposto è ampio e comprende esercizi motori, cognitivi e anche una componente sociale. I partecipanti al programma hanno evidenziato, durante analisi di risonanza magnetica funzionale, un aumento dell’afflusso sanguigno nel cervello, soprattutto nell’area dell’ippocampo, sede della memoria, e una migliore risposta cerebrale a compiti in cui erano impegnati, nonché un miglioramento delle capacità cognitive”. Il consorzio Train the brain, guidato ora da Alessandro Sale e da Nicoletta Berardi dell’Istituto di neuroscienze, in collaborazione con l’Istituto di fisiologia clinica del Cnr, con l’unità operativa di Neurologia dell’Azienda ospedaliera universitaria pisana e l’Irccs Stella Maris, ha pubblicato i risultati di questo studio su “Scientific Reports”, del gruppo Nature. "Il progetto si è ora arricchito dello studio di biomarcatori infiammatori dai quali è emerso che chi soffre di deficit cognitivi ha un livello di marcatori infiammatori superiori rispetto a chi è sano. Stiamo poi ancora lavorando e quantificando un vasto pannello di molecole del sistema immunitario, correlandole con il quadro di risonanza e con il profilo cognitivo di ogni soggetto sottoposto o meno all’allenamento, in cerca di biomarcatori specifici, che possano fare da campanello d’allarme e aiutare a identificare il più presto possibile i soggetti a rischio”, conclude Matteoli.
Fonte: Michela Matteoli, Istituto di neuroscienze, e-mail: michela.matteoli@cnr.it