Edward Luttwak, tra geopolitica e geoeconomia
L’esperto di politica internazionale affronta alcuni temi 'caldi’ del momento: dalla guerra civile in Libia alla crisi dell’Ucraina, dai problemi economici che interessano molti paesi europei alla condizione di Stati Uniti e Cina
Edward Nicolae Luttwak (Arad, 4 novembre 1942) è un economista, politologo e saggista romeno naturalizzato statunitense, conosciuto per le sue pubblicazioni sulla strategia militare e politica estera, esperto di politica internazionale e consulente strategico del Governo americano. Il suo primo incarico come professore è stato all'Università di Bath. In Italia compare di frequente nei talk show televisivi e partecipa a numerosi seminari. Sua l’invenzione del termine “geoeconomia” per indicare la disciplina che studia le politiche e le strategie da adottare per accrescere la competitività degli Stati.
Professore, la situazione geopolitica appare estremamente complicata e pericolosa.
Non dobbiamo esagerare. I terroristi, che sanno usare così bene i mezzi di propaganda, sono solo giovani senza soldi, senza futuro, senza istruzione, che dai Paesi islamici e dai sobborghi poveri dell’Europa pensano di potersi realizzare come protagonisti nello Stato Islamico. Ma non si tratta di veri eserciti addestrati nel senso occidentale del termine.
La sponda meridionale del Mediterraneo è però ormai rovente. È stato un errore rovesciare Gheddafi, in particolare?
L’intervento umanitario per salvare la Cirenaica vedeva contrari sia gli Stati Uniti sia l’Italia, i soli Paesi a conoscere bene la situazione della Libia. L’idea che togliendo Gheddafi sarebbe arrivata la democrazia era completamente sbagliata: infatti è arrivata l’anarchia.
L’Italia rischia di pagarne le conseguenze?
Credo che senza un intervento di terra non si riesca a risolvere nulla e l’Italia potrebbe fornire intelligence e comando. I soli bombardamenti, invece, aggraverebbero il caos e l’anarchia perdurante potrebbe portare a qualsiasi evoluzione, compreso il lancio di qualche missile Scud.
Non meno complessa appare la crisi dell’Ucraina: come uscirne?
In questo pianeta se l’altro è armato e se non sei pronto a combattere non puoi ottenere granché. Si credeva che le sanzioni avrebbero convinto Putin, ma tutta la politica del leader russo consiste nel sacrificare il benessere economico alla gloria del Paese. I russi sono nazionalisti e il popolo è dalla sua parte. Quindi le soluzioni sono due: o ci si decide al conflitto o si lascia Putin libero di disegnare la carta dell’Ucraina che ha in mente e si trova un modo di uscirne con eleganza.
La crisi economica ha intanto travolto molti Paesi europei. La reindustrializzazione non dovrebbe svilupparsi all’insegna dell’innovazione e della sostenibilità?
L’Innovazione è una bellissima strada, ma molto difficile, per manifestarsi richiede condizioni speciali. Nella storia umana si manifesta in piccoli gruppi sociali e in circoscritte aree geografiche. Nel '500 è stata di casa in Italia, nel XVII secolo è toccato all’Olanda, poi all’Inghilterra, oggi riguarda una minima parte del territorio americano, la Silicon Valley, Boston, poi i dintorni di Stoccolma, Israele, e pochissimo altro.
Le aziende innovative negli Stati Uniti, però, sono nate grazie al supporto privato e bancario. L’Europa punta soprattutto a programmi quadro e di cooperazione. Bisognerebbe coinvolgere di più il mondo della finanza?
Mio figlio per realizzare la sua linea di strumenti musicali in carbonio ha avuto un finanziamento dalla banca all’angolo: se in un Paese gli istituti di credito servono solo per concedere mutui ipotecari l’innovazione non può avvenire. L’innovazione richiede decisioni veloci e questo a mio avviso esclude la possibilità di procedere solo con i finanziamenti dei programmi governativi, tantomeno intereuropei, dove devi riempire moduli su moduli e sei valutato esclusivamente sulla base dei tuoi titoli. Una delle caratteristiche centrali del progresso, soprattutto nell’attuale fase storica, è che spesso i grandi innovatori sono del tutto estranei al sistema accademico. Se il sistema di valutazione delle idee si basa solo sui pezzi di carta la battaglia è persa in partenza. Inoltre, l’innovazione spesso nasce dall’incontro tra la forza creatrice della precarietà e finanziatori pronti a dare fiducia ai giovani e alle loro idee: le grandi aziende americane hanno smesso di essere creative nel momento stesso in cui hanno raggiunto il successo, una volta che i manager hanno l’auto di lusso e un bell’ufficio non sanno più pensare: non a caso Facebook, Google e Microsoft usano i loro capitali per comprare piccole aziende con idee nuove.
La Cina pare abbia investito nel 2013 l’equivalente di 400 miliardi di euro in innovazione. Come reggere il confronto?
I cinesi hanno le capacità economiche e demografiche per creare istituti di ricerca da 100.000 ricercatori, ma per innovare ci deve essere qualcuno con un’idea nuova, non convenzionale, non regolare, non omologata. E queste non sono le condizioni culturali del paese. I cinesi spendono molto e quindi riescono a migliorare e applicare ciò che è stato inventato da altri, il loro sistema è fortemente orientato a conquistare vantaggi concreti. Ma per innovare davvero occorre una visione, a cominciare dal riconoscere il valore fondamentale del fallimento: chi fa ricerca sa che abbandonare un progetto per tentarne un altro è essenziale. In America una serie di fallimenti in start-up aumenta la credibilità di chi propone un progetto, in Cina non puoi presentarti e chiedere un finanziamento se si porta un curriculum con degli insuccessi. Fare ricerca è un fatto creativo, analogo al gesto artistico. Quello che serve è quindi creare le condizioni perché le persone possano vivere in libertà, di espressione e di pensiero, poi come ho detto ci vogliono investitori pronti che non abbiano paura di rischiare.
In Europa il principio di precauzione è molto forte, scienza e tecnologia ispirano spesso diffidenza. Servirebbe più coraggio?
A Washington io compro la frutta in un negozio di fiducia dove è garantito che tutta la merce esposta è… Ogm. Niente di organico, tutto geneticamente modificato e più sano. Ecco, negli Usa tendiamo a pensare che le cose nuove siano tendenzialmente migliori delle vecchie. Senza la giusta fiducia sociale nel futuro, nei giovani e nelle loro idee non c’è innovazione.
Claudio Barchesi