Narrativa: Mission impossible

Himalaya: eppure si muove

Copertina del volume La vita in alto
di M. F.

La catena montuosa più alta del mondo collega cinque Paesi, tra i quali i due più popolosi del pianeta, potenze nucleari in perenne "guerra fredda", etnie, popoli, dinastie e imperi di cui non conosciamo neppure i nomi. Erika Fatland, ne "La vita in alto" (Marsilio), dà conto di questo mondo magmatico in quasi 700 pagine che si leggono d'un fiato. La scrittrice e antropologa norvegese ha trascorso due stagioni sul "tetto del mondo", percorrendolo con ogni mezzo e constatando i preoccupanti effetti della crisi climatica

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La catena himalayana ha confini geografici non perfettamente definiti e, dal punto di vista orogenetico, nasce dallo stesso movimento di placche che ha determinato l’emersione delle Alpi in Europa e dell’Atlante in Africa. Vi si affacciano cinque paesi, tra i quali i due più popolosi del mondo; sulle sue cime si fronteggiano potenze nucleari in uno stato di perenne “guerra fredda”. Storicamente, è stata abitata e contesa da etnie, popoli, dinastie e imperi di cui noi occidentali non conosciamo neppure i nomi. L’ignoranza, peraltro, è ricambiata. La norvegese Erika Fatland, nei due viaggi riportati ne “La vita in alto” (Marsilio), dà conto sia di inattesi incontri con persone che conoscono perfettamente il suo Paese, addirittura un albergatore che ha ospitato i sovrani di Oslo, sia di contadini che non sanno neppure dell’esistenza dell’Europa: più che comprensibilmente, peraltro, visto che non si sono mai mossi dal loro villaggio.

Di questo mondo magmatico, in lento ma perenne movimento, l'antropologa dà conto in quasi 700 pagine che si leggono d’un fiato. Il libro è scritto come un diario di viaggio, sia per la narrativa scorrevole sia per l’equilibrato inserimento dei riferimenti storici, scientifici e bibliografici. Un viaggio condotto negli ultimi anni in due tour di migliaia di chilometri percorsi a piedi, in auto, in aereo e con ogni mezzo disponibile, ma con la maturità di chi batte Asia e Oriente (Russia in primis) da ormai vent’anni. Nonostante la consapevolezza e il serrato programma di escursioni e incontri umani, però, l’autrice non si esenta dal riferire talune ingenuità e persino incidenti tipici del turista medio: gaffe turbolenze intestinali, confronti perdenti con gli abili commercianti locali, sfuriate delle guide per la sua inopportunità, visite di massa nelle mete più affollate.

Il turismo, d’altronde, ha globalizzato anche queste mete estreme, persino alle maggiori altitudini, come accade ormai in tutto il Pianeta. Il reportage dal Campo base dell’Everest in Nepal è indicativo, al riguardo: la scena che si presenta agli occhi di chi arriva non è dissimile, per certi aspetti, da quella che si presenta alla Tour Eiffel o davanti al Colosseo. E l’offerta di pizza, spaghetti e sushi accomuna persino le piazze più esotiche del “Tetto del mondo”. Una globalizzazione che ha radici e ragioni ben precise. Al riguardo, la scrittrice è durissima nei confronti della Cina, che sta attuando a colpi immigratori una politica di omologazione, una sorta di pulizia etnica appena ammorbidita, per rendere uiguri e tibetani ospiti tollerati in casa loro. Ma il giudizio è altrettanto severo anche verso la politica indiana, così come verso l’indifferenza occidentale: basti ricordare l’episodio del premio Nobel per la pace Liu Xiaobo, morto in regime di detenzione, e dell’atteggiamento a dir poco prudente assunto dalle autorità di Oslo nella vicenda. La Cina, guarda caso, è oggi un formidabile importatore di salmone norvegese.

Le principali armi di “distrazione di massa” sono per l’appunto il commercio, il turismo, le vie di comunicazione. Sotto i loro colpi, culture millenarie che conservano retaggi culturali, religiosi e spirituali unici stanno cedendo a una modernità più o meno uguale dappertutto, fatta di cellulari e musica pop. D’altronde un generico rimpianto sarebbe troppo facile e fuori luogo, considerando le miserrime condizioni in cui queste popolazioni sono vissute per secoli e fino a ieri: indigenza, mortalità infantile, sottomissione della donna, classismo esasperato, strapotere delle autorità, corruzione sono mali atavici, ancora oggi tutt’altro che debellati.

Per questo la domanda che fa da filo conduttore del viaggio resta senza una risposta chiara: si stava meglio prima, in un mondo identitario “puro” ma povero, oppure oggi che le briciole del benessere giungono fin qui? Le risposte si dividono equamente, ma soggiace a tutte una profonda tendenza alla rassegnazione, a seguire la corrente della storia, indissolubilmente intrecciata con le radici religiose buddiste, induiste e di molti culti locali. Rispetto a queste radici, i monoteismi musulmano e cristiano si sono innestati in un complesso groviglio di convivenza e ostilità. Più o meno lo stesso accade all’ambiente. Riduzione dei ghiacciai, cambiamenti climatici, alluvioni e siccità stanno modificando un ecosistema dal quale dipendono centinaia di milioni di persone. La sensibilità ecologista è per fortuna cresciuta, ma contrastare gli interessi che si agitano in questa parte di mondo non è facile.

Erika Fatland ha ricevuto il Premio Kapuściński per il reportage. Si è imposta con “Sovietistan”, tradotto in ventiquattro lingue; il suo secondo libro è “La frontiera”. Ne “La vita in alto. Una stagione sull'Himalaya”, dopo aver raccontato le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale e gli sterminati confini della Russia, ci porta sulla catena montuosa più alta del Pianeta facendoci scoprire la sua gente, le culture, i paesaggi, una storia poco nota che è all’origine di alcuni tra conflitti sanguinosi. Per questo la lettura è ancor più di attualità oggi, dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina.
Partendo dalla Cina e attraversando Pakistan, India, Bhutan, Nepal e Tibet, la scrittrice norvegese percorre un itinerario dove a dominare non sono solo vette maestose e orizzonti infiniti, ma uomini e donne di cui raccoglie le testimonianze e descrive le piccole vite. Centinaia di etnie, lingue e tradizioni, tre grandi religioni, antichi riti sciamanici e credenze primitive: il rigore dell’antropologa e la curiosità dell’esploratrice consegnano un racconto spesso paragonato a Bruce Chatwin, che fonde storia e politica, geografia ed ecologia; il diario di un’avventura durata otto mesi tra cime e valli, comunità arcaiche e superpotenze.

Titolo:  La vita in alto
Categoria: Narrativa
Autore/i:  Erika Fatland
Editore: Marsilio
Pagine: 688
Prezzo: 21,00