Faccia a faccia: Raffaello

Raffaello e il suo linguaggio "universale"

Claudio Strinati
di Sandra Fiore

"Enfant prodige", "Magister" a soli 17 anni, protagonista della scena artistica del Rinascimento, elaborò un linguaggio pittorico di assoluta eleganza formale, che contempera l'epica, la poesia, la lirica, la dolcezza e il rigore più severo. Ne parliamo con Claudio Strinati, già soprintendente per il Polo museale romano, storico dell'arte, critico, divulgatore, curatore di numerose mostre

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Raphael Johannis Santis de Urbino, pittore e architetto di cui quest'anno si celebra il cinquecentenario della morte, respirò l'arte fin da bambino nella bottega del padre, Giovanni Santi. Ad Urbino, dove nacque nel 1483, l'“enfant prodige” della pittura fu introdotto dal genitore presso la corte dei Duchi di Montefeltro, aperti alle innovazioni del sapere e ai protagonisti dell'arte. In questa capitale del Rinascimento, Raffaello ebbe modo di studiare - subendone le suggestioni - le opere di Piero della Francesca, Luciano Laurana, Francesco di Giorgio Martini. Rimasto orfano di padre a undici anni, Raffaello ne ereditò la bottega e in breve tempo raggiunse una tale maturità da fregiarsi a soli 17 anni del titolo di Magister. Dopo un apprendistato fiorentino giunse a Roma, presso le corti papali di Giulio II e Leone X, divenendo in breve un protagonista della scena artistica. La morte, avvenuta nel 1520, lo colse a soli 37 anni. Abbiamo chiesto di introdurci nel mondo di Raffaello a Claudio Strinati, già soprintendente per il Polo museale romano, storico dell'arte e critico, autore di studi sulla pittura e la scultura del Rinascimento e del Seicento, ma anche divulgatore e curatore di numerose mostre. Non solo per capire meglio il linguaggio pittorico dell'Urbinate, ma per riflettere, a partire dalla sua figura, sull'attuale dimensione e comunicazione dell'arte. È da poco in libreria un suo nuovo lavoro: 'Il giardino dell'arte' un romanzo che porta il lettore a scoprire le meraviglie del nostro Paese.

Dopo il cinquecentenario dalla morte di Leonardo e di Raffaello, nel 2021 si celebrerà il settecentesimo da quella di Dante. Queste celebrazioni servono?

Sicuramente, la celebrazione dei nostri grandi tramite gli anniversari aiuta a indurre e a rafforzare il senso di rispetto e di orgoglio per la nostra tradizione artistica e culturale.

Quale fu la maggiore intuizione di Raffaello, appellato “divino” già dai contemporanei?

La creazione di un nuovo linguaggio artistico di respiro universale, capace di unire e sintetizzare i grandi fattori fino ad allora scoperti ma non sufficientemente valorizzati nel periodo Umanistico: la prospettiva pittorica, le nuove tecniche nella composizione del colore e nella struttura del disegno. E l'allargamento delle iconografie artistiche a tutti i campi del sapere: la scienza, la letteratura, la musica, la poesia. Raffaello fu artefice di un universalismo linguistico e culturale che non esisteva prima di allora e i contemporanei si resero conto di questa peculiarità nella sua produzione.

Claudio Strinati

Il pittore amava firmarsi con il nome seguito da “Urbinas” e non dal cognome. Quale fu il legame con la città natale?

 

Quella firma è indice del suo orgoglio di essere il figlio eletto della più importante città rinascimentale del suo tempo. La corte urbinate, quando Raffaello era ragazzo, costituiva uno dei fulcri culturali dell'Europa intera: una vera cittadella dell'arte, grazie al mecenatismo e alla sensibilità di Federico da Montefeltro. Per il Sanzio essere “Urbinas” significava essere un uomo del Rinascimento. Tuttavia, i rapporti con la città divennero conflittuali dopo la morte del padre, che vi dirigeva una bottega: rimasto orfano, dovette subire la concorrenza di altri artisti e fece fatica a trovare spazio. Può apparire assurdo, ma non ci sono opere di Raffaello realizzate a Urbino, cui fu legato quindi da sentimenti contrastanti, un rapporto di amore-odio, un sentire che si addolcì e si trasformò in un legame profondo solo quando raggiunse definitivamente la fama di grande pittore.

Che rapporto ebbe invece con il padre Giovanni, la cui opera è stata recentemente oggetto di un'esposizione?

Giovanni Santi era uomo di grande cultura: pittore, scrittore, uno dei primi storici dell'arte italiana, ma col tempo è stato inevitabilmente oscurato dal sommo figlio, un po' come accadde a Leopold Mozart, padre di Wolfgang Amadeus. Eppure entrambi questi geni devono molto all'apporto formativo paterno: Raffaello, grazie al genitore, assimilò tutte le caratteristiche dell'uomo di corte e del pensiero che maturava nell'élite urbinate, trasformandoli in arte magistrale.

La bottega di Raffaello funzionava come una moderna impresa, con il “copyright” del maestro…

Sì, possiamo dire così. Nella sua bottega c'era una forte componente di scuola. Il maestro stabiliva le modalità creative e le linee di tendenza e tutti i collaboratori, ai quali era affidata anche l'esecuzione, si muovevano sulle sue indicazioni.

Raffaello e Michelangelo lavorarono nello stesso periodo per la committenza papale. Che rapporti ebbero?

Molto conflittuali. Lo sappiamo soprattutto dall'allievo prediletto di Michelangelo, Sebastiano del Piombo, che in numerose corrispondenze con Buonarroti parla malissimo di Raffaello e della sua scuola. Sono due personaggi fortemente contrapposti: per antonomasia, Raffaello è il caposcuola, Michelangelo è il genio isolato. Il Buonarroti non volle essere circondato da discepoli del suo stesso livello, affermò nella sua opera una sorta di solipsismo, puntò tutto su una visione quasi superomistica, la sua opera è sempre e soltanto epica. Quella di Raffaello invece contempera l'epica, la poesia, la lirica, una dolcezza infinita e il rigore più severo. Possiamo dire, in sintesi, che la tastiera raffaellesca è più ampia di quella michelangiolesca, ma quella di Michelangelo è di una potenza insuperabile.

Oggi disponiamo di molte tecnologie per indagare un'opera. Quanto conta ancora l'occhio del critico, dello storico, dell'esperto?

L'occhio del critico evolve con l'evolversi della scienza e della tecnologia. Anche i critici del passato si basavano su eccellenti cognizioni tecniche, legate ad esempio alla tipologia del colore, alla struttura dei supporti. Non è mai esistita un'expertise che prescindesse da certe cognizioni. Rispetto ad allora, adesso abbiamo in più la possibilità di eseguire analisi chimiche del colore, radiografie e riflettografie: l'occhio dell'esperto si è come “allargato”, perché questi strumenti permettono di puntualizzare sempre meglio l'intuizione visiva. Non c'è però alcun contrasto tra il critico o storico e la tecno-scienza che utilizza, l'unico rischio è attribuire al risultato scientifico un'importanza assoluta, che prescinda dall'occhio umano, questo potrebbe far cadere in errori di valutazione e interpretazione. Anche la scienza può essere deviata e indurre verso risultati e obiettivi non veritieri, non esiste uno strumento di indagine perfetto in sé: bisogna vigilare, altrimenti l'indagine storico-critica potrebbe scadere in una forma di pseudoscienza. Se invece chi esamina un'opera prende in considerazione tutti i dati, come avviene da secoli, allora si prosegue nel solco di un metodo consolidato e arricchito dall'approfondimento tecnico-scientifico.

In tempi di Coronavirus la fruizione di mostre e musei è preclusa. A prescindere da questa emergenza, cosa pensa delle virtualizzazioni, che già da tempo si affiancavano o sostituivano alla visione delle opere reali?

Sono una necessità richiesta dal nostro tempo, a parte la condizione contingente, per ragioni di tutela: sempre di più i musei, i proprietari di edifici ecclesiastici, i detentori di beni archeologici sono restii a prestare opere d'arte di particolare importanza e fragilità per le esposizioni temporanee. Abbiamo avuto casi anche recenti di polemiche in tal senso. In questi casi, la virtualità supplisce a questa cautela, consente comunque la visione dell'opera. Inoltre la tecnologia si è evoluta al punto che può essere impiegata con risultati magistrali, sorprendenti, sul piano didattico ed estetico.

Sandra Fiore

Federico da Montefeltro
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