Faccia a faccia

La storia è la nostra ombra

Chiara Frugoni
di Claudio Barchesi

Chiara Frugoni, storica del Medioevo specialista di San Francesco d'Assisi e Santa Chiara, ha sempre integrato i testi con le fonti iconografiche: la sua recente scoperta di un profilo di diavolo negli affreschi di Assisi ha fatto il giro del mondo. Nel suo ultimo libro e in quest’intervista ci racconta la sua infanzia e l’importanza di capire il passato

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Chiara Frugoni, nata a Pisa nel 1940, è una storica del Medioevo. Ha insegnato Storia medievale all’Università pisana e successivamente a Roma Tor Vergata, fino al 2000, dedicando larga parte dei suoi studi a San Francesco d'Assisi e a Santa Chiara. Il suo metodo di studio è da sempre teso a integrare i testi con le fonti iconografiche: recentemente ha scoperto un profilo di diavolo, in uno degli affreschi attribuiti a Giotto nella Basilica Superiore di San Francesco, una notizia che ha fatto il giro del mondo. Collabora con programmi radio-televisivi ed è autrice di numerosi libri: l’ultimo uscito – 'Perfino le stelle devono separarsi’, Feltrinelli - racconta la sua infanzia.

Dopo tanta storia del Medioevo, un libro autobiografico, perché?

Credo che alla mia età sia giusto guardarsi indietro e poi il mio libro non è solo una storia personale: è la testimonianza di una società scomparsa, un pezzetto di storia vissuta in un paese in provincia di Brescia, Solto, dove passavo le mie estati. La mia infanzia si è divisa tra i nonni paterni molto ricchi, proprietari terrieri, e una nonna materna poverissima: le due famiglie non si sono mai incontrate e io ho vissuto a cavallo tra questi due mondi. A Solto, poveri e ricchi erano accomunati da abitudini precise e da una tetra parsimonia. Quando mio padre si trasferì a Roma, dopo la guerra, i nonni ci ospitarono nel loro bellissimo palazzo di Brescia, ma ci offrirono una sola stanza, e a cena un solo piatto di minestra.

Una storia dei sentimenti, tra istinti e cultura?

Sì, anche i sentimenti hanno una storia. Nel '600-700 le famiglie mandavano i figli dalla balia, benché sapessero che la maggior parte sarebbe morta.

Il rapporto con suo padre, il grande storico del Medioevo Arsenio Furgoni, non fu facile. Fu per sfida o per amore che decise di seguirne le orme?

Mio padre morì a 56 anni in un incidente stradale insieme con mio fratello. Era una persona rigida, molto esigente, e con me conflittuale. Era integerrimo, aveva addirittura scritto alla Scuola Normale di Pisa una lettera in cui si opponeva alla mia ammissione: per fortuna non fu ascoltato. Dopo gli studi, ho inizialmente fatto un mestiere diverso, la bibliotecaria. Alla sua morte ho potuto intraprendere la carriera universitaria serenamente, con alcuni incarichi iniziali e poi, con un po’ di fortuna, ottenendo una cattedra. Non ho avuto maestri né mentori e questo mio non essere legata a nessuno mi ha dato grande libertà. Così, quando dopo la riforma l’Università ha iniziato a non piacermi più, l’ho lasciata. 

Le figure di San Francesco e Santa Chiara sono centrali nei suoi studi, qual è stato il motivo di questo interesse?

Mio padre ci ha educato nel più totale disprezzo della ricchezza. Pensi che aveva talmente l’orrore del possedere che, appena finiva un lavoro, dava via tutti i libri che aveva letto. Forse è questa una delle ragioni che mi hanno fatto scegliere Francesco. Poi mi incuriosiva il fatto che le biografie ufficiali di questo santo, la 'Vita I e II’ di Tommaso da Celano e la 'Legenda maior’ di Bonaventura da Bagnoregio, scritte a poche decine di anni l’una dall’altra, fossero in totale contraddizione: una bellissima palestra per uno storico. Poi è subentrato il fascino ed è arrivata Chiara. I due santi avevano un rapporto fortissimo con la società che li circondava, rivoluzionario. Nella regola non approvata dal Papa ma che vigeva nella comunità c’era scritto che l’elemosina era restituire in parte quello che era stato portato via ai poveri.

La sua lettura del Medioevo è centrata sullo studio iconografico. Ci racconta la sua recente scoperta di un diavolo negli affreschi di Giotto?

Le immagini hanno pari dignità dei testi, ma senza i testi non si possono capire. Il diavolo che ho scoperto, con gli occhi chiusi e tanto di corna, appare nella 'Visione dei troni’, una delle scene del ciclo delle Storie di san Francesco della Basilica superiore. A Francesco è destinato il trono che fu di Lucifero, cacciato dal Paradiso perché ribelle e innamorato - come ricorda con grande energia Bonaventura da Bagnoregio - della propria bellezza, e a causa di questo reso cieco da Dio. Mentre Francesco è destinato al suo trono, Lucifero, impotente, assiste dalla nuvola. Nel Medioevo si credeva che il diavolo, essenza spirituale, per potersi mostrare agli uomini prendesse forma dal vapore acqua e dall’aria, nelle nuvole ove abitava e da cui scatenava spesso tempeste. A Solto, quando ero bambina, all’arrivo dei temporali, mia nonna mi mandava a fare il giro della casa con l’ulivo benedetto, per cacciare i diavoli 'che non mandassero la grandine’ e intanto la chiesa suonava le campane.

La storia ci aiuta a capire il presente? Il mestiere di storico, per dirla con Marc Bloch, è ancora attuale?

Direi proprio di sì. La storia è la nostra ombra e uno dei guai del mondo moderno e proprio quello di essere pieno di uomini senza ombra. Quante cose ci vengono dal Medioevo! Basti pensare a certi modi di dire: 'a spron battuto’, 'lancia in resta’, 'mi sento a cavallo’, 'essere ferrato’, 'perdere le staffe’. Oppure si pensi all’atto di lasciare 'una mancia’: non si fa altro che rievocare l’usanza delle dame medievali di concedere una manica del vestito (manche in francese) al vincitore di un torneo, che la metteva come trofeo sul cimiero. Le maniche dei vestiti erano infatti intercambiabili, perché soggette a sporcarsi, mentre i sontuosi tessuti del vestito non si potevano lavare. Nel Medioevo poi sono state inventate tante cose: gli occhiali, la pasta, la forchetta, lo stare seduti a tavola, gli assegni e, come anche lei sa, Babbo Natale.

Come cambiano gli studi storici con la disponibilità dei nuovi mezzi tecnologici e della rete?

Il mio primo libro, 'Una lontana città’, l’ho scritto a mano. Oggi si potrebbe scrivere anche senza un pc, ma sarebbe terribilmente faticoso. Le banche dati poi hanno dato grandi possibilità allo studioso, possiamo trovare i libri a colpo sicuro, organizzare il lavoro. Il pericolo è che la sovrabbondanza di informazioni e collegamenti tolga tempo alla riflessione.

Il valore culturale, economico e sociale del nostro patrimonio storico artistico è evidente, pure si assiste a polemiche continue sulle ore di insegnamento e sulla gestione dei musei… È giusto così?

No. Bisogna continuare a formare le persone per permettere loro di apprezzare la bellezza. Rinunciare alla formazione sulla comprensione della bellezza è una menomazione della loro felicità. Gli studi umanistici sono poi molto formativi e valgono anche per chi intende seguire una carriera scientifica.

Lei che rapporto ha con le scienze e la tecnologia?

 Uso molto bene il computer, e lavorando tanto con le immagini so usare anche Photoshop. Ho provato anche i libri elettronici ma, devo dire, che quando una cosa mi interessa sul serio, la stampo e la leggo su carta. Ho bisogno di annotare, riflettere. I libri elettronici non si ricordano, ogni pagina è uguale alle altre. Magari, poco a poco, un giorno ci si abituerà.

Con suo marito Donato Cioli, che è medico e ricercatore del Cnr, a casa si parla più di storia o di scienza?

Mio marito è senese, quindi è vissuto in una città d’arte, ha studiato al classico e ha un grande interesse per gli studi umanistici. Per lui è più facile capire il mio lavoro di quanto lo sia per me capire il suo, se non provvede a tradurre la sua terminologia iper specialistica.

Un suo auspicio per il futuro

Vorrei che la gente leggesse maggiormente. All’estero si legge molto più che in Italia. In Francia Jacques Le Goff presentava tutti giorni un libro, in una trasmissione seguitissima; in un’altra, la famosissima Apostrophes, si parla di libri con gli autori. A Parigi sulla metropolitana, al mattino, tutti hanno un libro in mano. Io vorrei che si capisse anche da noi in Italia l’importanza di essere delle persone colte.

Claudio Barchesi

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