Più che fame è voglia...
A stuzzicarci e a indurci a mangiare, spesso, non è l’appetito quanto la gola, il desiderio di assumere alimenti che gratificano il nostro gusto, il più delle volte però ricchi di grassi, zuccheri e sale. Ma come mai ci attraggono tanto queste tentazioni dannose per la nostra salute? Ne parliamo con la neuroscienziata del Cnr Maria Luisa Malosio
Mangiare è una necessità per l’uomo ed è fondamentale per la sopravvivenza, ma in molti casi non è la fame, il bisogno di introdurre calorie, a spingerci a mangiare, quanto piuttosto il piacere che ricaviamo dall’assumere cibo, soprattutto quello ricco di grassi, zuccheri e sale, gustoso per il palato. Ma cosa è a indurci a scegliere questo tipo di alimenti, spesso caratterizzati da scarso valore nutrizionale e che anzi nuocciono alla salute determinando la comparsa di disturbi quali diabete, malattie cardiovascolari, obesità? All’origine c’è l’aumento del neurotrasmettitore dopamina nei centri della ricompensa del cervello, che provocano il desiderio di consumarne, come spiega Maria Luisa Malosio dell’Istituto di neuroscienze (In) del Cnr: “Il comportamento alimentare che determina il mangiare per piacere e non per effettiva necessità energetica è definito come fame edonica, che implica che siano meccanismi di natura neurobiologica a stabilire la sensazione di piacere per certi cibi e che questo possa sfociare in una dipendenza da alcuni alimenti”.
A determinare la fame edonica non è dunque un reale bisogno biologico ed energetico, quanto piuttosto un desiderio di gratificazione governato dal nostro cervello. “A svolgere un ruolo importante nell’esperienza edonica del cibo è innanzitutto la secrezione salivare, processo avviato da un feedback neurologico innescato dalla vista, dall'odore e persino dal pensiero del cibo, che stimola le ghiandole salivari a produrre saliva”, chiarisce la ricercatrice. “Studi scientifici hanno dimostrato come il flusso salivare e la sua composizione (ad esempio, mucine, proteine ricche di proline, sodio, attività amilolitica, proteolitica e lipolitica), che può variare individualmente, hanno un impatto sulla percezione in bocca dei sapori come grasso, dolcezza, salinità, astringenza, amarezza e aroma retro nasale”.
Considerando la complessità del cervello, il cui funzionamento è basato sui circuiti neuronali e sulle sinapsi, strutture che collegano tra loro i neuroni, sono molteplici i meccanismi cerebrali che ci spingono a mangiare in modo eccessivo e poco sano. “Nelle sinapsi agiscono i neurotrasmettitori, piccole molecole chimiche che permettono alle sinapsi di funzionare, cioè di far parlare tra loro i neuroni che queste connettono (fig.1). Esistono diversi neurotrasmettitori, ma è in particolare la dopamina a giocare un ruolo importante sia nei fenomeni di fame e di sazietà, sia nel determinare la sensazione di piacere: è stato visto infatti che maggiori quantità di dopamina nel sistema mesolimbico del cervello determinano le sensazioni di piacere associate all'assunzione di cibo e la motivazione a ricercarlo”, continua Malosio. “Quando questa regione viene sovrastimolata può creare una ‘carenza da ricompensa’ che spinge gli individui a mettere in atto comportamenti eccessivi o compulsivi per raggiungere lo stesso livello di piacere sperimentato”.
Figura 1
Nel controllo dell'assunzione di cibo vanno considerate anche altre aree cerebrali. “La corteccia prefrontale (Pfc), una regione del cervello coinvolta in numerosi processi cognitivi, responsabile del processo decisionale, dell'elaborazione della ricompensa e del controllo degli impulsi, svolge un ruolo fondamentale nella regolazione del comportamento alimentare edonico. In particolare, aiuta a sopprimere il desiderio di mangiare quando il cibo non è necessario per la sopravvivenza. È stato visto però che una disfunzione in questa regione cerebrale può contribuire all'assunzione eccessiva di cibo e all'aumento di peso”, aggiunge l’esperta del Cnr-In. “C’è poi l’ipotalamo, all’interno del quale due regioni controllano rispettivamente fame e sazietà: il nucleo Arcuato (Arc) contiene neuroni che producono un ormone, la grelina, che stimola l’appetito, mentre il nucleo Ventromediale (Vmh) è coinvolto nella regolazione della sazietà. La risposta ipotalamica alla sazietà dipende dal bilancio energetico percepito, sulla base delle riserve di grasso (tessuto adiposo) presenti nell’organismo. Il tessuto adiposo comunica con l'ipotalamo rilasciando un ormone, chiamato leptina, che è un segnale di sazietà. Se l'ipotalamo percepisce una carenza di depositi grassi, si riduce il senso sazietà e ciò favorisce l'aumento del consumo di cibo e la sovralimentazione”.
Oltre alla dopamina, anche altri neurotrasmettitori e ormoni sono coinvolti nel controllo dell'assunzione di cibo edonico, come la serotonina e gli endocannabinoidi. “La serotonina è nota per regolare l'umore ed è coinvolta negli effetti gratificanti del cibo, mentre gli endocannabinoidi sono coinvolti nella regolazione dell'appetito e nella sensazione di piacere associata al mangiare”, precisa la ricercatrice.
Un’ulteriore componente che rende desiderabili cibi poveri di nutrienti essenziali è poi il modo in cui vengono presentati e commercializzati. “È noto che le campagne pubblicitarie sono il frutto dello studio di come il nostro cervello risponde agli stimoli visivi e su cosa riesce a indurre l’acquolina, rendendoci più predisposti all’acquisto. Ad esempio, l’utilizzo dei colori che possono rendere un cibo desiderabile o detestabile, come la visione del rosso, colore delle cose dolci come le fragole e di cose piccanti come il peperoncino, che determina l’aumento della pressione sanguigna a la frequenza cardiaca. La pubblicità si avvale poi di immagini che creano situazioni di vita desiderabili, che fanno leva su quello che culturalmente per la nostra società risulta rappresentare valori di riferimento”, conclude Malosio. “Inoltre, ricerche sull'impatto del marketing predatorio (Mp) relativo a bevande e alimenti sul comportamento alimentare e sulla salute indicano un'associazione positiva tra Mp e un’assunzione maggiore di cibo, con conseguente probabilità di obesità nei soggetti che vi sono esposti, in particolare i bambini”.