Salute a tavola: Inizio

I cambiamenti dell’alimentazione e gli effetti sul benessere

Surgelati
di R. B.

La trasformazione della vita, del lavoro e gli avanzamenti tecnologici hanno determinato modifiche anche nel nostro modo di mangiare, che ci hanno spinto a iniziare a consumare cibi surgelati, precotti e processati. Per comprendere gli effetti che la loro assunzione determina sulla nostra salute abbiamo parlato con Concetta Montagnese dell’Istituto di scienze dell’alimentazione del Cnr 

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Il modo di mangiare è mutato nel tempo, senza andare troppo indietro, a quando gli uomini primitivi si nutrivano di bacche e frutti selvatici o dei proventi della caccia, basta pensare a come si alimentavano i nostri nonni, che assumevano cibi coltivati senza prodotti chimici, preparavano conserve fatte in casa e consumavano carni di animali allevati con mangimi sani. Negli ultimi decenni, si sono verificati numerosi e profondi cambiamenti sociodemografici che hanno provocato modifiche degli stili di vita, dando inizio a nuove abitudini alimentari: è diminuito il tempo a disposizione per preparare i pasti e si mangia più spesso fuori casa. Parallelamente, c’è stato un notevole avanzamento tecnologico, che ha influito anche in ambito alimentare determinando, ad esempio, lo sviluppo di cibi surgelati o precotti, che riducono notevolmente il tempo da dedicare alla preparazione dei pasti. Secondo il rapporto annuale del 2023 sui consumi dei surgelati, 9 italiani su 10 portano a tavola questo tipo di prodotti, e il 53% della popolazione li consuma abitualmente. In particolare, negli ultimi anni l'incremento di questo mercato è dovuto prevalentemente alla crescente domanda di pasti pronti all'uso, di primi piatti ricettati, quali paste e risotti, e di zuppe vellutate di vegetali.

Ma quali sono gli effetti di questi cambiamenti sulla nostra salute? “Oggi sappiamo che il processo di surgelazione permette di mantenere la qualità organolettica e nutrizionale dei cibi, ma occorre fare chiarezza sui diversi tipi di prodotti disponibili sul mercato. La surgelazione è infatti una delle migliori tecnologie di conservazione da un punto di vista igienico e nutrizionale, tale processo comporta la formazione veloce di cristalli di ghiaccio (temperatura -30/-40°C raggiunta in un tempo inferiore alle 4 ore), che non provocano lesioni all'interno delle cellule vegetali o animali, e, quindi, non alterano il contenuto di nutrienti. Certamente è fondamentale il mantenimento della catena del freddo (ovvero di una temperatura di -18/-20°C) del prodotto surgelato perché si possa ritenere un cibo sicuro”, spiega Concetta Montagnese dell’Istituto di scienze sull’alimentazione (Isa) del Cnr. “I vegetali surgelati, per esempio, conservano la gran parte dei loro benefici se sono freschi; l’apporto di fibre appare inalterato, mentre il contenuto di alcune vitamine sensibili alle variazioni di temperatura può essere ridotto (ad esempio i folati delle verdure a foglia verde), così come il contenuto di alcuni composti bioattivi (ad esempio i glucosinolati presenti nei broccoli e nei cavoli). Ciò è dovuto a un passaggio preliminare del processo di surgelazione chiamato sbianchitura, che riduce le quantità di alcuni composti e di vitamine sensibili al calore. Anche i legumi e il pesce surgelato, come i filetti di pesce di merluzzo o salmone senza altri ingredienti aggiunti, mantengono buona parte delle loro proprietà nutrizionali e riducono notevolmente i tempi di preparazione casalinga”.

Cibi in barattolo

Diverso è il discorso per i piatti pronti, che vengono precotti e per i quali va terminata poi la cottura, come sottolinea la ricercatrice del Cnr-Isa: “Questi prodotti presentano più ingredienti nella preparazione e generalmente elevate quantità di sale, zuccheri e grassi aggiunti, che possono avere effetti dannosi sulla salute. Inoltre, alcuni, come le patate fritte, sono sottoposti a cottura a temperature molto elevate, che causano la formazione di acrilammide, una sostanza chimica cancerogena, che può provocare mutazioni del Dna, aumentando il rischio di tumore. In generale, tutti gli alimenti che sono fritti e poi surgelati (prefritti), talvolta preparati anche con panatura, presentano un elevato contenuto di grassi saturi, i cosiddetti grassi cattivi. Tutti questi alimenti rientrano nelle categorie dei prodotti definiti processati o ultra-processati, una terminologia che negli ultimi anni si è diffusa a partire dalla classificazione Nova proposta dallo studio del ricercatore Carlos Augusto Monteiro. La Nova suddivide gli alimenti in 4 gruppi, in funzione del grado di lavorazione industriale subita, partendo da alimenti non o minimamente processati, sottoposti a lavorazioni fisiche, quali taglio o essiccatura, gruppo 1 (frutta, verdura, uova, carne, latte, ecc.); passando per gli ingredienti culinari processati gruppo 2 (come olio e zucchero, erbe aromatiche, ecc.); per arrivare al gruppo 3 (verdure in scatola in salamoia, carni in scatola, frutta sciroppata, formaggi, ecc.); ultra-processati gruppo 4 (paste e zuppe pronte, pane, bevande zuccherate, snack dolci e salati, pizze, cereali da colazione, ecc.)”.

Molti studi sono stati condotti per valutare le conseguenze sulla salute di un consumo elevato di alimenti ultra-processati, evidenziando una relazione con un aumento del rischio di obesità, ma anche di malattie croniche, quali diabete, tumori, e malattie cardiovascolari. “Gli effetti dannosi dell’assunzione di questo tipo di cibi sono associati alla loro minore qualità nutrizionale; generalmente hanno un’elevata densità energetica, un alto contenuto di grassi saturi, zuccheri, sale e additivi alimentari e un basso contenuto di fibre, minerali e vitamine. Quindi mangiarli vuol dire introdurre le cosiddette ‘calorie vuote’, che aumentano il rischio di malattie croniche non trasmissibili”, continua Montagnese. “Tra i possibili meccanismi proposti da vari studi per spiegare gli effetti negativi sulla salute umana vi sono anche la formazione di composti pericolosi durante la lavorazione industriale, la maggiore esposizione a sostanze chimiche che interferiscono con il normale funzionamento del sistema endocrino (ad esempio gli ftalati utilizzati negli imballaggi degli alimenti), la modifica del microbiota intestinale, che causa una condizione di disbiosi e determina un aumento della produzione di molecole pro-infiammatorie che accrescono il rischio di malattie croniche”.

Recentemente però alcuni studi hanno evidenziato i limiti della classificazione Nova e dei dati disponibili attualmente. “Uno dei limiti evidente di tale classificazione è che non tiene conto della qualità nutrizionale degli alimenti e, soprattutto, della quantità e della frequenza del loro consumo e, dunque, della composizione della dieta abituale. Quindi, la raccomandazione spesso proposta di preferire gli alimenti dei gruppi 1 e 2 e di ridurre o evitare il consumo dei gruppi 3 e 4 appare generalizzata e non può da sola rappresentare uno strumento per ridurre il rischio di obesità e l’insorgenza di malattie. Negli anni successivi alla classificazione Nova sono state sviluppate ulteriori classificazioni degli alimenti - tra le quali Siga e Food Compass -, che si basano non solo sul livello di processazione ma anche su altri aspetti, quali la qualità nutrizionale, gli ingredienti della preparazione e la presenza di sostanze specifiche”, chiarisce l’esperta, che aggiunge: “Distinguere il cibo soltanto in base al suo grado di trasformazione industriale è un approccio riduttivo. Bisogna scegliere ciò che acquistiamo valutandolo nella sua interezza, tenendo conto del suo grado di trasformazione, ma in primo luogo del suo contenuto in nutrienti, controllando la lista degli ingredienti riportata in etichetta”.

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