Smart working, però con attenzione
Nel giro di poche settimane si è passati dall'utilizzo di strumentazioni low-tech, come telefoni cellulari ed e-mail, a quello di tecnologie molto più sofisticate. Tra le conseguenze, per molti lavoratori, un'aumentata apprensione. È necessario mantenere un giusto“work-life balance” tra i benefici attesi e gli svantaggi di natura psicologica e sociale derivanti dal passare molte ore in casa in perenne connessione. Ne parliamo con Luisa Errichiello, Tommasina Pianese e Antonio Tintori, autori di studi al riguardo
Entrati ormai nella “fase 3” della gestione dell'epidemia da Coronavirus, è lecito chiedersi se lo smart working, che moltissimi italiani hanno sperimentato per la prima volta durante la pandemia, diventerà una modalità di lavoro stabile. Sebbene alcune aziende e istituzioni adottassero già lo strumento del telelavoro domiciliare, infatti, lo smart working modifica radicalmente i paradigmi del lavoro, che viene incentrato sull'autonomia e sulla flessibilità spazio-temporale. Pur non cambiando i contenuti dell'attività da svolgere, viene attuato un vero e proprio ripensamento delle procedure e dei processi aziendali, in cui le tecnologie giocano un ruolo di primo piano sia per lo svolgimento del lavoro in remoto, sia per garantire una prossimità “virtuale” con i colleghi e l'organizzazione.
L'argomento è da tempo al centro delle ricerche di Luisa Errichiello e Tommasina Pianese dell'Istituto di studi sul Mediterraneo (Ismed) del Consiglio nazionale delle ricerche di Napoli, che già prima del diffondersi del virus hanno intrapreso una serie di studi sui cambiamenti organizzativi e manageriali nonché sui comportamenti individuali derivanti dall'implementazione di modelli di lavoro in remoto. “La situazione di emergenza ha accelerato enormemente l'adozione di modalità di lavoro che aprono nuovi scenari dal punto di vista tecnologico, organizzativo, sociale e psicologico. Nel giro di poche settimane si è passati dall'utilizzo di strumentazioni low-tech, come telefoni cellulari ed e-mail, a quello di tecnologie molto più sofisticate, come sistemi di videoconferenza e di formazione a distanza, rispetto alle quali non tutti erano ugualmente pronti”, afferma Errichiello. “Tra le conseguenze più immediate della crescita esponenziale di connessioni digitali c'è stata, per molti lavoratori, un'aumentata pressione psicologica e sociale legata all'apprensione di rispondere a queste nuove sollecitazioni mediatiche, oltre alla necessità di assecondare, rispetto a colleghi e superiori, una sorta di 'attesa di connettività costante'. È evidente che tale condizione, se non gestita efficacemente, può avere ripercussioni negative sul livello di concentrazione e produttività, oltre ad accrescere lo stress e peggiorare la salute”.
Lavorare a distanza richiede, infatti, una profonda trasformazione dei comportamenti: fondamentale è la capacità di self-management e lavorare per obiettivi: “Lo smart working richiede l'abbandono di tradizionali schemi che legano la performance lavorativa alla presenza in ufficio, modalità che vengono sostituite da una cultura del lavoro basata su fiducia e responsabilizzazione”, aggiunge Pianese. “Tuttavia, il fatto che questo passaggio non sia stato graduale, ha spinto molti smart workers a lavorare in maniera eccessiva, non riuscendo così a gestire in modo corretto i confini tra la sfera lavorativa e quella privata. Un aiuto in questo senso può venire da alcuni accorgimenti quali, ad esempio, uno scheduling puntuale della giornata lavorativa - comprese le riunioni con i colleghi - lo switch off degli strumenti tecnologici e l'individuazione di uno spazio dedicato al lavoro, auspicabilmente separato da altri ambienti. Queste azioni sono in grado di influenzare positivamente le attitudini e la condizione psicologico-emotiva”.
Altro aspetto da non trascurare, l'affaticamento del cervello e degli occhi dovuto alla continua esposizione allo schermo: “Negli Usa si parla già 'zoom fatigue', o sindrome di zoom: quella sensazione di spossatezza conseguente all'utilizzo massiccio di sistemi di videochiamata o videoconferenza. Succede infatti che, nel sovraccarico cognitivo a cui è sottoposto, il cervello faccia un grande sforzo per decodificare e discriminare informazioni che non può cogliere chiaramente come avviene nella realtà”, ha affermato la direttrice dell'Istituto di neuroscienze, Michela Matteoli, recentemente ospitata alla rassegna digitale “Salute, la parola alle scienziate” organizzata dal magazine Io Donna.
Complice la quarantena, poi, moltissime persone hanno iniziato a trascorrere lunghe ore davanti allo schermo del pc non solo per lavorare: secondo i primi risultati dell'indagine “Mutamenti sociali in atto-Covid19”, realizzata dall'Istituto per le ricerche sulla popolazione e le politiche sociali (Irpps), del Cnr, durante l'isolamento è più che raddoppiato il tempo che gli italiani trascorrono su web e social media. “Se fino a pochi mesi fa un italiano trascorreva normalmente dai 30 ai 60 minuti al giorno su social media come Facebook, Twitter, Instagram e Whatsapp, la nostra ricerca ha evidenziato, dalla quarantena in poi, un utilizzo molto più elevato, anche se prevalentemente orientato alla ricerca di notizie attinenti alla situazione emergenziale”, conclude Antonio Tintori del Cnr-Irpps, responsabile dell'indagine che a oggi ha coinvolto oltre 25.000 partecipanti. “Interessante notare che, relativamente al lavoro, l'indagine mostra un cauto ottimismo: il 40% degli intervistati dichiara di non essere spaventato del futuro e addirittura il 17% pensa che da questa emergenza nasceranno delle opportunità nuove. Gravi rischi e perdite economiche sono, invece, temute dall'altro 40% dei rispondenti".
Fonte: Luisa Errichiello, Istituto di studi sul Mediterraneo , email luisa.errichiello@ismed.cnr.it - Tommasina Pianese, Istituto di studi sul Mediterraneo , email tommasina.pianese@ismed.cnr.it - Antonio Tintori, Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali, Roma , email antonio.tintori@cnr.it