Quando a valorizzare il patrimonio culturale è la natura. E viceversa
Per comprendere come questo avvenga abbiamo parlato con Flavia Bartoli, biologa ambientale dell’Istituto di scienze del patrimonio culturale del Cnr e membro del gruppo di ricerca su Paesaggi culturali e biodiversità
Parlare di natura in chiave di valorizzazione del patrimonio culturale significa affrontare, con uno sguardo multidisciplinare, le differenti prospettive del concetto, declinabile sia in relazione alla progettazione di parchi archeologici e giardini storici, sia in relazione a una più corretta interpretazione iconografica di opere d’arte, sia anche rispetto alle più recenti produzioni artistiche contemporanee. Un concetto complesso, che richiede letture multidisciplinari, tra le quali c’è quella del biologo ambientale. Ma in che modo l’aspetto vegetale può potenziare la resa estetica di monumenti storici, reperti archeologici, quadri o opere di street art?
“In un parco archeologico, la componente naturale è parte del paesaggio stesso, è un elemento che coadiuva e valorizza il patrimonio culturale. E questo accade perché spesso il sito si comporta da ‘hotspot di biodiversità’. All’interno di un parco archeologico, infatti, assistiamo non solo all’espressione della natura come valorizzazione di monumenti o reperti ma anche, all’opposto, alla cultura come conservazione di specie naturali”, spiega Flavia Bartoli, biologa ambientale dell’Istituto di scienze del patrimonio culturale (Ispc) del Cnr e membro del gruppo di ricerca su Paesaggi culturali e biodiversità. “La gestione di un sito culturale, come può essere un parco archeologico o un giardino storico, è soggetta a una normativa nazionale che detta precise regole di progettazione atte sia a garantire una scarsa presenza di costruzioni cementizie rispetto ad altri siti, sia a tutelare la conservazione dei monumenti storici. In questo modo il parco stesso può salvare alcune specie più sensibili, diventando un rifugio per alcune specie vegetali o animali minacciate da estinzione, che proprio nel parco invece riescono a sopravvivere grazie alla conservazione di habitat ormai minacciati o scomparsi”.
Siamo quindi di fronte a un esempio di come l’eterna dicotomia tra natura e cultura non solo viene meno, ma si ribalta nel suo significato sotteso: il sito archeologico in sé diventa quindi l’espressione di un patrimonio culturale puro, ma anche di un patrimonio naturalistico. Oltre questo aspetto conservativo, in cui è la cultura a svolgere un ruolo di salvaguardia per la natura, il parco archeologico si offre però, al momento della sua progettazione, anche come fattore di valorizzazione, nel momento in cui la tipologia delle specie che vengono utilizzate deve avere una relazione culturale con il sito in sé. La coerenza, in termini storici ed estetici, tra le rovine conservate e le specie vegetali offrono allo spettatore del sito un’indubbia valorizzazione estetica, nel rispetto della coerenza storica, cultuale e naturalistica.
“Un giardino storico della Roma tardo antica, ad esempio, conteneva un dato pool di specie vegetali con funzioni definite, nel restauro e nella riprogettazione di un giardino simile, a scanso di anacronismi, non possono essere installate quindi delle vegetazioni incoerenti con la storia del sito.
Andando oltre la valorizzazione, si può leggere la natura anche in chiave di conservazione preventiva del sito archeologico o del parco storico”, prosegue la ricercatrice. “Progettando in modo corretto il verde nei parchi, si può ridurre l'impatto degli agenti atmosferici che deteriorano il patrimonio culturale e quindi realizzare un progetto di conservazione preventiva, riducendo l'insolazione, il vento, e dunque l'erosione eolica, o le infiltrazioni dell'acqua”.
Opera di William Kentridge
Il concetto di valorizzazione per mezzo di elementi naturali può passare anche attraverso un accrescimento della conoscenza di un’opera d’arte. “Il riconoscimento iconografico di specie animali e vegetali ha da sempre aiutato a migliorare la lettura e la datazione di dipinti e ritratti nel momento in cui quelle piante e quegli animali venivano scelti dall’artista o dal committente in base al loro preciso significato e non venivano rappresentati casualmente. Se si sceglieva di rappresentare determinate specie è perché si voleva mandare un messaggio e dare un significato e un senso precisi a quell'opera d'arte”, precisa Bartoli.
E del resto la storia dell’arte e del restauro è piena di esempi di come l’analisi dei pigmenti utilizzati in un dipinto possano aiutare nella datazione dell’opera stessa o accrescere la conoscenza sulle tecniche adottate dall’artista. E’ recente la notizia della scoperta, da parte di un team di ricerca del quale fanno parte anche l’Ispc e l’Istituto di scienze e tecnologie chimiche "G.Natta" del Cnr, della presenza di oro, argento e altri materiali preziosi nel capolavoro di Gustav Klimt "Le tre età”.
A volte, dunque, la natura non si limita a valorizzare l’opera, ma ne diviene elemento integrante. Un esempio di opera d’arte in cui gli elementi naturali sono una componente fondamentale è quella dell’artista sudafricano William Kentridge, “Triumph and Laments”, alla cui realizzazione sui muraglioni del Lungotevere a Roma ha collaborato anche Flavia Bartoli nel 2016. “I muraglioni del Lungotevere non sono neri per smog o per sporcizia, sono neri perché sopra c'è una patina biologica di cianobatteri e alghe, licheni che colonizzano il muro. L’opera di Kentridge, volutamente effimera, era un graffito in continua trasformazione nel tempo, ma non a causa dello smog, bensì come conseguenza della ricolonizzazione naturale da parte di questi organismi, elementi portanti dell’opera. Conoscere il comportamento degli organismi naturali che compongono queste opere risulta pertanto fondamentale per la vita dell’opera stessa, sia per monitorarne la trasformazione, sia per permetterne una conservazione più lunga”, conclude l’esperta.
La collaborazione con l’artista ha portato alla realizzazione di due studi da parte della Bartoli e del suo team di ricerca, uno per monitorare nel tempo l’opera e vedere e prevedere quanto tempo questa opera d'arte ci mettesse a scomparire grazie alla ricolonizzazione degli organismi a seconda della stagione, l’altro per bloccarne la scomparsa, testando prodotti capaci di rallentarne o ridurne la ricolonizzazione e prolungare la vita dell’opera.
Il tema della valorizzazione in chiave naturale delle opere d’arte è un tema in continuo sviluppo e dalle infinite sfaccettature: dalle opere di street art che si avvalgono di pitture minerali ad elevata traspirabilità e mangia smog alle più moderne installazioni di bioart e del biodesign la dicotomia natura/cultura è destinata perciò, anche nell’arte, a trasformarsi sempre più in un vincente connubio.
Fonte: Flavia Bartoli, Istituto di scienze del patrimonio culturale, flavia.bartoli@cnr.it