Dimmi la verità. Non è facile
Gloria Origgi sostiene nel suo saggio che combattiamo sempre la “stessa guerra che Platone combatteva contro i sofisti”, con la differenza che “oggi la filosofia è ben più scettica”. Il rapporto con i fatti è infatti sempre più complesso, anche perché “la scienza si è trasformata”
Gloria Origgi lavora in Francia e Italia, è autrice di articoli scientifici e collabora con la rivista Micromega. Nel suo ultimo saggio “Caccia alla verità” (Egea) sostiene che siamo “in guerra contro la verità” e che si tratta della “stessa guerra che Platone combatteva contro i sofisti” ma con la differenza che “oggi la filosofia è ben più scettica”. Colpa dell’influenza del trascendentalismo di Immanuel Kant e dell’idealismo di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, entrambi convinti che la corrispondenza con i fatti dipenda intrinsecamente dalla forma della nostra coscienza, per cui c’è “sempre la possibilità di avere due descrizioni del mondo”. Un altro colpo alla verità fu inflitto dalla filosofia pragmatista secondo cui è vero “ciò che pragmaticamente funziona”, come scrisse il filosofo John Dewey nel 1920.
Ma cosa definiamo con questo termine? E perché vogliamo conoscerla? “La verità è l’accordo tra l’intelletto e l’oggetto”, diceva Tommaso d’Aquino; “l’accordo tra la cognizione e il suo oggetto secondo le forme della nostra cognizione”, afferma Kant. Nella definizione di Platone una credenza è una conoscenza ed è vera “se è in una relazione robusta con il mondo esterno”, se è “giustificata, ossia se sono in grado di articolare pubblicamente le ragioni che rendono vera quella mia credenza”. Il che, nel caso della ricerca scientifica, significa disporre di un “armamentario teorico-sperimentale-procedurale” che garantisca “l’oggettività e l’universalità dei risultati della ricerca prodotta attraverso un sistema di scetticismo organizzato”.
Ma attenzione, secondo Friedrich Nietzsche la verità è “una fede metafisica, non diversa dalla religione, in una realtà moralmente superiore. E secondo un noto sofisma semantico “è inerte, non aggiunge niente ai fatti”, come l’autrice suggerisce provocatoriamente: “Dire che è vero che in questo momento sto scrivendo al mio computer è uguale a dire che in questo momento sto scrivendo al mio computer”. Ecco così che l’Oxford English Dictionary propone la parola “post-verità” e che vicende di vario genere - il referendum sulla Brexit nel Regno Unito e l’elezione di Donald Trump nel 2016, la pandemia di Covid del 2020, la guerra russa contro l’Ucraina nel 2022 - hanno ulteriormente rimesso “in questione il nostro complicato rapporto con la verità”.
Questo il punto del saggio che più inquieta: come può la soggettività interpretativa di avvenimenti pur importanti mettere in crisi un concetto che dovrebbe essere per definizione permanente? La verità non è dispotica, come diceva il filosofo Grozio: “Nemmeno Dio potrebbe negare che 2+2 è uguale a 4”? E non è extra-politica, come propone Hannah Arendt in un articolo del 1967 sul New Yorker, considerato che “la politica è il mondo delle opinioni”? Le verità razionali, davvero oggettive, per Arendt non sono un problema, “perché i cittadini, comunque, nella maggior parte dei casi se ne disinteressano e perché sono prodotte indipendentemente dal contributo della società”. Le verità fattuali sono invece problematiche, dato anche il ruolo sempre più influente degli esperti, loro detentori e portatori, nelle tecnocrazie contemporanee. Torna cioè la contrapposizione tra scienze della natura e dello spirito, rispettivamente assolute e relative, potremmo dire “due culture”, ripartizione classica quanto però ormai contestata. In realtà, infatti, se “scienza, scientismo e ricerca della verità” non sono “pane della politica”, anche “le verità analitiche si basano sull’esperienza” e “non c’è niente di immutabile nelle leggi della scienza”, come insegna l’articolo “I due dogmi dell’empirismo” pubblicato nel 1951.
“Il rapporto tra fatti, convenzioni e istituzioni è molto più complesso” e lo è sempre di più, poiché la scienza, a causa del “business spietato” (publish or perish) e delle “alleanze tecnoscientifiche”, si è “trasformata in un’attività capitalistica ben distante dalle norme che le attribuiva il sociologo Robert Merton: comunalismo, universalismo, disinteresse e scetticismo organizzato”. Questa l’analisi di Origgi, sicuramente corretta anche se espressa in forme che risentono di un certo rimpianto per una presunta epoca aurea della ricerca di curiosità, di base, “pura” si diceva un tempo. Ed è condivisibile anche la volontà di non cedere al catastrofismo gnoseologico, seppure con qualche amarezza, poiché “il mondo degli oggetti come lo conosciamo è anch’esso frutto di negoziazioni” ma questo “non significa arrivare a una conclusione relativista”. La scienza è infatti “un’attività auto-perfettibile” di “approssimazione alla verità”, ma “non è la verità”.
Ed ecco anche perché è bene tenere a mente il liberalismo di John Stuart Mill che nel saggio “Sulla libertà” insiste “sull’importanza della circolazione di tutte le opinioni, anche quelle sbagliate: perché ci aiutano ad articolare meglio quelle corrette”, così come “L’ordine del discorso” in cui Michel Foucault “esplora la questione dei rapporti tra potere e sapere sostenendo che ogni epoca stabilisce il suo regime di verità, che consiste nel separare ciò che è dicibile e ciò che non lo è attraverso procedure di esclusione”. Eccessi di politicamente corretto e cancel culture sono lì a ricordarcelo. Condivisibile quindi l’affermazione dell’autrice secondo cui: “La scienza è lungi dall’essere uno strumento perfetto di conoscenza. È solo il migliore che abbiamo. In questo senso, come in molti altri, è come la democrazia”.
Titolo: Caccia alla verità
Categoria: Saggi
Autore: Gloria Origgi
Editore: Egea
Pagine: 163
Prezzo: 19,90