La colpa non è della plastica. È nostra
Su questo materiale essenziale ma nell'occhio del ciclone per l'uso indiscriminato che se ne fa, che per la gran parte finisce in rifiuti e impatta sull'ecosistema, soprattutto marino, si sono tenute campagne mediatiche e iniziative dedicate come 'Fatti di plastica', animata dal dipartimento Terra e ambiente del Cnr. La presa di coscienza ha prodotto importanti provvedimenti normativi, che tra l'altro hanno stabilito la messa al bando di shopper e cotton fioc non riciclabili
Di recente si è parlato molto di plastica, e molto male. Un materiale da decenni nell'occhio del ciclone per l'uso indiscriminato che se ne fa, destinato per la gran parte a finire in rifiuto e fino a qualche tempo fa poco o per nulla riciclato, è adesso oggetto di una presa di coscienza collettiva. Nelle settimane e nei mesi scorsi si sono tenute diverse giornate dedicate, iniziative di informazione e riflessione come 'Fatti di plastica', svoltasi a Roma su iniziativa del dipartimento Terra e ambiente del Cnr, campagne mediatiche quali quelle di Sky e Repubblica. La presa di coscienza ha soprattutto animato importanti provvedimenti normativi, che tra l'altro hanno stabilito la messa al bando di shopper e cotton fioc non riciclabili.
Stiamo facendo i conti, salatissimi, con alcune contraddizioni del nostro sistema consumistico. In primis, aver adottato uno dei materiali più durevoli, con tempi di biodegradazione fino a mille anni, come materia prima degli oggetti usa-e-getta. Questo non deve farci dimenticare che la plastica è un elemento ineliminabile della vita contemporanea, né il ruolo che essa ha rivestito nello sviluppo delle società moderne, fino a divenire un'icona dello sviluppo e del progresso materiale. I meno giovani ricorderanno le pubblicità del Moplen con Gino Bramieri ma forse persino alcuni di loro ignorano che ai polimeri è dovuto uno dei pochissimi Nobel scientifici italiani, quello di Giulio Natta, che rivestì tra gli altri anche incarichi presso il Consiglio nazionale delle ricerche.
L'errore che commettiamo è quello di scaricare su un materiale o sugli oggetti che se ne ricavano, come fossero un capro espiatorio, colpe e responsabilità che sono soltanto nostre. Un minimo di coscienza civica, di sensibilità per l'ambiente e di logica bastano per capire quali comportamenti evitare e quali adottare. Questi ultimi si riassumono nelle cosiddette “3 R”: riduco, riuso, riciclo. Un impegno che deve coinvolgere tutti gli stakeholder, dai cittadini alle istituzioni, dai media alle associazioni ambientaliste, dalla ricerca scientifica alla scuola, e tutta la filiera che parte con la produzione industriale e, purtroppo, spesso termina con la dispersione indiscriminata dei rifiuti.
Durante 'Fatti di plastica' sono state diffuse immagini e cifre impressionanti: oltre 25 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica generate ogni anno in Europa, meno del 30% delle quali viene recuperato, un milione al secondo solo le bottiglie acquistate ogni minuto (in luogo delle vecchie bottiglie di vetro 'vuoto a rendere'), 500 miliardi i sacchetti utilizzati ogni anno (le borse telate riutilizzabili sono però sempre più diffuse). Un ovvio, enorme danno all'ecosistema, soprattutto marino, all'ambiente, alla catena trofica e all'uomo stesso, sul piano economico e su quello della salute.
Un paio di ricordi personali, per quanto privi di valore scientifico, possono aiutare a rendere l'idea della globalità di questo problema. In Senegal, paese dove si percorrono chilometri e chilometri senza incontrare traccia umana e capita di fermarsi in villaggi abitati da poche persone, si viaggia quasi sempre lungo strade affiancate da un continuo svolazzare di sacchetti, soprattutto residui di sacchi neri nei quali viene trasportata qualunque merce, abbandonati in cumuli che il vento non fatica a disperdere. A Ny Alesund nelle Isole Svalbard, nel Circolo Polare Artico, una località abitata da poche decine di ricercatori e soggetta a una ferrea disciplina per quanto riguarda il trattamento dei rifiuti, basta una passeggiata di pochi metri sul fiordo per imbattersi nei resti di plastica più vari.
È il segno di quanto ricerche e cronache attestano senza ombra di dubbio: non c'è lembo del Pianeta, ma soprattutto delle sue acque, immune da quest'epidemia di inciviltà, che non ha confini, non conosce zone franche, colpisce persino le aree protette e più estreme. Lo vediamo con i nostri occhi con le cosiddette isole di plastica o con gli animali soffocati, che hanno il paradossale vantaggio di essere appunto visibili e costringerci a fare i conti con la situazione. Ancora più insidioso è l'inquinamento invisibile che avviene alla dimensione micro e nano: chi di noi riflette, per esempio, sul battistrada dei pneumatici, consumato sull'asfalto e poi disperso dagli agenti atmosferici?
La conoscenza è la base ineludibile della consapevolezza. Se vogliamo comprendere appieno l'inquinamento da plastica e la marine litter, e trovare soluzioni idonee, dobbiamo puntare sulla ricerca, altrimenti rischiamo di scandalizzarci e solidarizzare empaticamente quanto occasionalmente. Ma questo non è il problema di un giorno, è un problema di sempre.