Una varietà che va tutelata
Fabio Trincardi, direttore del Dipartimento di scienze del sistema terra e tecnologie per l’ambiente del Cnr, evidenza la crisi della biodiversità sul nostro pianeta, giunta a un livello preoccupante, come testimoniano le tante specie scomparse. Una situazione che induce a parlare addirittura del rischio di una sesta estinzione di massa
Dopo aver lasciato l’Africa orientale, Homo sapiens ha contribuito, con la sua diffusione, a quattro transizioni che hanno trasformato il mondo da preistorico a quello attuale: la domesticazione e il passaggio all’agricoltura, quasi 10.000 anni fa; la colonizzazione del mondo a partire dal 1500; la rivoluzione legata all’utilizzo di energia accumulata nei combustibili fossili dalla metà del XIX secolo; la “grande accelerazione” a partire dal secondo dopoguerra, con la crescita esponenziale, non sostenibile nel lungo periodo, dello sfruttamento di tutte le risorse del pianeta.
Purtroppo, l’economia globalizzata si basa su due assunti sbagliati circa i sistemi naturali: che il loro cambiamento avvenga in modo graduale e lineare, con l’illusione che non sia urgente invertire la rotta; che la biosfera abbia capacità e spazio infiniti per assorbire gli impatti crescenti dell’uomo (sottoforma anche di rifiuti) e consentire l’estrazione infinita di risorse e sostenere la produzione e i consumi. Da decenni, ormai, sappiamo che non è così, ma questa consapevolezza stenta a tradursi in un cambiamento radicale del rapporto con il pianeta e le specie che lo abitano.
Il termine Antropocene, coniato vent’anni fa dal premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, ha preso piede nel mondo della ricerca e nella divulgazione scientifica per definire l’epoca della storia della Terra in cui l’Uomo è divenuto il maggiore agente di cambiamento planetario. Dall’uscita del libro del Club di Roma (1972), dedicato ai limiti della crescita, la comunità scientifica lavora a definire i limiti planetari entro i quali dovrebbe svilupparsi la nostra vita come specie e il nostro impatto sul pianeta. Questi limiti sono nove e di questi addirittura sei sono stati superati: clima, biodiversità, suolo, acqua dolce, cicli biogeochimici, inquinamento.
La crisi della biodiversità è drammatica al punto che si parla di sesta estinzione. Nella storia del pianeta si sono, infatti, susseguite 5 estinzioni di massa, ognuna delle quali ha portato alla scomparsa di un numero di specie anche superiore al 90% di quelle esistenti allora. A causare l’estinzione, questa volta, non è però un meteorite (come alla fine del Cretacico) o una mega attività vulcanica da milioni di chilometri cubi di lava (come nel Triassico e nel Permiano), ma l’espandersi di una sola specie: Homo sapiens. Negli ultimi decenni i tassi di estinzione di specie sarebbero cresciuti fino ad essere da 100 a 1.000 volte più alti di quelli naturali. Sarebbero 260mila le specie scomparse a causa dei Sapiens. Il condizionale è d’obbligo perché, se l’impatto dell’uomo su tutti gli ecosistemi è indubbio, non tutte le specie viventi sono conosciute e classificate; di fatto, alcune si stanno estinguendo prima ancora di essere finite in un museo o in un erbario o essere state intercettate da un nostro retino da plancton o viste in un microscopio.
L’insieme dei sistemi biofisici del pianeta ne definisce il grado di abitabilità globale. La biosfera fornisce servizi ecosistemici (l’ossigeno che respiriamo, l’acqua che beviamo, il cibo) e, oltre a questo, offre la resilienza delle sue componenti come argine ai traumi e allo stress dovuti alle attività antropiche così come a catastrofi e altri eventi estremi di origine naturale. È la resilienza della biosfera che mantiene il pianeta vivibile per noi umani. Le specie intorno a noi vivono in costante relazione tra loro, in un equilibrio dinamico che permette agli ecosistemi di funzionare come noi li conosciamo. È grazie alla conoscenza di questi equilibri nelle relazioni tra specie che noi abbiamo imparato a sfruttare a nostro vantaggio il mondo naturale: basta pensare agli impollinatori che ci permettono di avere frutta e ortaggi; ai lieviti senza i quali non potremmo gustare pane, birra, vino; agli antibiotici che ci permettono di guarire da molte malattie causate da infezioni batteriche. Ogni cambiamento nella presenza o abbondanza delle specie conduce invariabilmente a un nuovo equilibrio. Ogni nuovo equilibrio non è né meglio né peggio di quello precedente e il mondo naturale prima o poi vi si adatta. Chi potrebbe non adattarsi siamo noi: se ad esempio scomparissero gli impollinatori il mondo andrebbe avanti, diverso da prima, dominato da piante che usano il vento o altro per trasmettere il polline. Per noi invece sarebbe una vera catastrofe.
L’impatto dell’uomo sulla biodiversità nell’Antropocene porta a squilibri ricorrenti, con un continuo riadattarsi della natura e del nostro modo di rapportarci con il mondo. Il risultato è che se consideriamo, in peso, la totalità dei mammiferi viventi sulla Terra, scopriamo che il 3% appena è costituito da animali tuttora selvatici, il 30% siamo “noi”, gli 8 miliardi di umani, mentre il restante 67% sono le poche specie di mammiferi allevati dall’uomo. La deforestazione ha portato al dimezzamento dei 6.000 miliardi di alberi presenti prima della rivoluzione industriale. Inoltre, la tecnosfera, ossia l’insieme di tutti i prodotti manufatti dall'uomo, nel 2020 ha raggiunto il peso di 30mila miliardi di tonnellate, pari a quello dell'intera biosfera.
Ci sono studi urgenti da compiere: come cambia la fenologia - il rapporto tra fattori climatici e manifestazioni stagionali di alcuni fenomeni della vita vegetale e animale come crescita e riproduzione? Da cosa dipende la diffusione di specie aliene e il loro tempo di latenza nei nuovi ambienti? Di quanto si ridurrà la resilienza della biosfera a causa della omogenizzazione biotica che accompagna l’attuale globalizzazione economica? Quanto la crisi di biodiversità dipende dalla frammentazione del territorio, distruzione di suolo, incendi e deforestazione? E che ne sarà della biodiversità marina tra sovrasfruttamento delle specie ittiche, crisi del fitoplancton (che produce ossigeno come tre foreste amazzoniche) e acidificazione dell’oceano con conseguente scomparsa degli scheletri e dei gusci carbonatici di moltissime specie?
Ma se la situazione è questa, che cosa può fare la ricerca in Italia, anche grazie ai cospicui finanziamenti del PNRR? Molti accademici sembrano rispondere: “dobbiamo capire meglio il problema”, i finanziamenti servono a questo; altri aggiungono: “dobbiamo sfruttare meglio la biodiversità residua per rilanciare l’economia”. Entrambe le visioni poggiano sulla convinzione che la natura non faccia salti irreversibili e che ci sia tempo. La scienza ha però il dovere di spiegare alla società quanto sia grave la crisi della biodiversità, convincendoci a cambiare i consumi (e le abitudini) alimentari, soprattutto se questo migliora la salute dei “consumatori” e contribuisce a ridurre le emissioni di gas climalteranti (il 25% della CO2 e il 45% del metano immessi in atmosfera vengono infatti da agricoltura e zootecnia industriali). Poiché possiamo fare a meno di tutto ma non del cibo e dell’acqua, può essere utile riassumere qualche numero inequivocabile: per produrre 1 kg di lenticchie emettiamo 1,6 kg di CO2, mentre per produrre 1 kg di carne rossa si emettono 26 kg di CO2 che diventano addirittura 350 kg se il foraggio viene da aree deforestate. Le cose vanno ancora peggio se consideriamo che per 1 kg di gamberetti prodotto in aree di deforestazione delle mangrovie l’emissione di CO2 raggiunge 1.600 kg. Occorre quindi sensibilizzare decisori e grande pubblico proponendo nature-based solutions ai tanti problemi ambientali ma soprattutto spingendo a un cambio drastico dei consumi di cibo e degli esorbitanti sprechi collegati, ai quali è inconsapevolmente immolato il 30% di tutti i territori coltivati al mondo (impattati anche dai fertilizzanti), oltre a 230 km3 di acqua! Crisi climatica e crisi della biodiversità si intersecano e si amplificano reciprocamente. In comune hanno una cosa: generano pochi vincitori (momentanei) e moltissimi vinti.
Fonte: Fabio Trincardi, Dipartimento di scienze del sistema terra e tecnologie per l’ambiente, direttore.dta@cnr.it