La recente crisi della Silicon Valley Bank (SVB), presentata come "la banca dell'economia globale dell'innovazione", in un periodo non frequentemente lungo di tassi di interesse prossimi allo zero (o addirittura negativi), ha riaperto una “grande domanda” circa il mondo economico-finanziario-bancario: perché non si riescono a prevedere le crisi in arrivo? Ma soprattutto, come vengono distribuite le perdite? Ovvero, chi paga?
Sull’ultima domanda, nel caso di SVB, le autorità hanno scelto la linea dura: chiusura della banca, rimborso di tutti i depositi assicurati, liquidazione dell'attivo o, come si dice in gergo, “bail-in” dei creditori, in funzione di quanto sarà possibile ottenere dalla liquidazione dell'attivo. Anche se gli analisti sono pronti a scommettere che probabilmente questa volta i contribuenti dovranno pagare poco o nulla. Certo è che la crisi odierna appare molto diversa da quelle affrontate nel 2008 con il “caso Lehman Brothers”, dove crollo delle banche e domanda in forte calo scatenarono il panico a livello planetario; oggi, invece, il problema principale sembra essere l'inflazione, determinata da un eccesso di domanda rispetto all'offerta disponibile, che ha favorito la formazione di debiti, a fronte di investimenti che presentano rischio di tasso o di credito elevati.
Ma la SVB non è la Lehman Brothers. E il 2023 non è il 2008. Almeno apparentemente, non siamo di fronte a una crisi finanziaria sistemica. Anche se la vicenda si è abbattuta negativamente sui mercati internazionali, travolgendo inevitabilmente anche quelli europei.
Più in generale, appare chiaro che eventuali punti di crisi nell'intricato mondo dello “shadow banking system” prevedranno sempre più richieste di interventi delle banche centrali e del settore pubblico. Ma per capire quanto sia concreto il pericolo di una futura crisi finanziaria si dovrà sempre più studiare quante esposizioni molto rischiose o completamente illiquide assunte in passato (per ottenere rendimenti nello scenario di tassi d'interesse bassi) vi sono in giro nei bilanci delle banche e nei portafogli degli asset manager. Oltre a monitorare costantemente le aree di rischio principali: investimenti immobiliari, quelli nelle società non quotate (soprattutto per finanziare lo sviluppo di start up nei settori ad alto tasso d'innovazione tecnologica), le cartolarizzazioni nelle quali non sempre si registra piena trasparenza sugli attivi sottostanti.
L’auspicio, per evitare altri terremoti finanziari, è anche quello di abbandonare la strada del (presunto) “guadagno facile”, ovvero di un cambiamento della propensione al rischio da parte degli investitori, in favore d'investimenti più sicuri, così da evitare le bolle speculative, come accaduto in passato. Riusciremo a imparare la lezione?
Fonte: Antonio Coviello, dell’Istituto di ricerca su innovazione e servizi per lo sviluppo, a.coviello@iriss.cnr.it