Un brindisi tra premi Nobel
Pablo Neruda e Miguel Ángel Asturias hanno dedicato al vino alcune loro opere, evidenziandone gli effetti positivi, quali la capacità di favorire l'allegria, la socialità, l'arte e le conversazioni dotte. Lo sottolinea Patrizia Spinato, ricercatrice dell'Istituto di storia dell'Europa mediterranea del Cnr
Declinato in tutte le forme artistiche, il vino non finisce di ispirare e di ammaliare scrittori, pittori, scultori, drammaturghi di ogni epoca e di ogni latitudine. In ambito letterario ispanoamericano il pensiero corre subito al premio Nobel del 1971, Pablo Neruda (Parral, 1904 - Santiago del Cile, 1973), che soprattutto attraverso “L'uva e il vento” (1954) e le “Odi elementari” (1954) ci consegna la propria visione del dono dionisiaco.
“Vino color del giorno, / vino color della notte, / vino con piedi di porpora / o sangue di topazio, / vino, / stellato figlio / della terra, / vino, liscio / come una spada d'oro, / soave / come un disordinato velluto, / vino inchiocciolato / e sospeso, amoroso, / marino, / mai costretto in un bicchiere, / in un canto, in un uomo, / corale, / gregario sei / e quantomeno reciproco” recita l'incipit dell'“Ode al vino”. Bevanda, dunque, dalla molteplici connotazioni, dalle infinite sfumature, tutte positive, che richiamano la terra, il mare, l'amore, l'arte, la socialità. E se alle volte esso si nutre di ricordi mesti, gelidi, mortali, più spesso vivifica, rinvigorisce, rallegra: e nasce, con il canto, l'arte.
“Oh, tu, giara di vino, nel deserto / con la bella che amo, / disse il vecchio poeta. / Che l'anfora di vino / al peso dell'amore aggiunga il suo bacio”. Vino e amore sembrano strettamente legati, con connotazioni decisamente positive, come si legge nei versi seguenti: “Amore mio, all'improvviso / il tuo fianco / è la curva colma / della coppa, / il tuo petto è il grappolo, / la luce dell'alcol i tuoi capelli, / uva i tuoi capezzoli, / il tuo ombelico puro sigillo / stampato sul tuo ventre di vaso, / e il tuo amore la cascata / di vino inarrestabile, / il chiarore che cade sui miei sensi, / lo splendore terrestre della vita”.
Il vino, però, non si riduce all'amore, al bacio bruciante, al cuore bruciato: il vino è anche vita, amicizia, trasparenza, coro, fiori. Così il poeta cileno esorta i suoi lettori a inebriarsi per rinnovare il sentimento panico: “Che lo bevano, / che ricordino in ciascuna / goccia d'oro / o coppa di topazio / o cucchiaio di porpora / che lavorò l'autunno / fino a riempire di vino i vasi / e impari l'uomo oscuro, / [...] a ricordare la terra e i suoi doveri, / a divulgare il cantico del frutto”.
Ma Pablo Neruda non fu l'unico Nobel ispanoamericano ad apprezzare il nettare di Bacco, a considerarlo imprescindibile accompagnamento di dotte conversazioni: “Amo sopra una tavola, / quando si parla, / la luce di una bottiglia / di vino intelligente”. Condivideva volentieri i piaceri conviviali con un altro caposaldo della letteratura americana, il guatemalteco Miguel Ángel Asturias (Città del Guatemala, 1899 – Madrid, 1974), premio Nobel nel 1967.
Curioso, a questo proposito, è il libro composto a quattro mani da Neruda e Asturias nel 1969: “Mangiando in Ungheria”. Qui si celebra l'aspetto ludico, solare, sociale, l'allegria, la festa del mangiare e del bere, bene e in abbondanza, in una visione paradisiaca di una onirica tavolata planetaria (evocata nello “Stravagario” di Neruda), qui però riservata a due ospiti d'eccellenza del partito socialista.I vini ungheresi, come il Tokai, seducono i due scrittori, uniti dalle lusinghe di cibi raffinati e di bevande sopraffine. Un consumo consapevole, ponderato, assaporato e centellinato grazie all'esperienza, alla cultura, alla raffinatezza. Siamo quindi lontani dagli eccessi e dalle connotazioni negative a cui l'alcol viene associato, soprattutto nella narrativa di Miguel Ángel Asturias.
È indicativo l'epilogo del libro citato, stavolta a firma di Asturias: “Se si tratta di riempire lo stomaco, mangiare è volgare, e se è per alimentarsi, mangiare è istintivo. Per questo la tavola che ci imbandì l'Ungheria fu un campo di festa e coloro che ci accompagnarono, celebranti di un rituale tanto antico come l'uomo stesso e tanto attuale come la vita quando si mantengono le forme del convivio, il gusto per la compagnia, le pietanze, i vini, la conversazione, il fumo del tabacco e quell'inconfessabile sensazione di dopotavola, quando ci inebria l'emozione di essere compenetrati di sostanze che furono combinate per il nostro diletto in proporzioni di arte e di sapienza”.
Fonte: Patrizia Spinato, Istituto di storia dell'Europa mediterranea, Milano, email patrizia.spinato@cnr.it