Faccia a faccia

La scienza? Eccitante e avventurosa

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di Federica Fumante

Così la definisce lo scrittore Alessandro Piperno, vincitore nel 2005 con il romanzo 'Con le peggiori intenzioni', dei premi Campiello e Viareggio. È autore anche di opere di saggistica e collabora con il Corriere della sera e con Vanity Fair

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Scrittore e docente di Letteratura francese all'Università di Roma Tor Vergata, Alessandro Piperno nel 2005 pubblica il suo primo romanzo 'Con le peggiori intenzioni' che, con quasi 200 mila copie vendute in pochi mesi, vince il premio Viareggio e il premio Campiello opera prima. Nel 2010 è la volta di 'Persecuzione', prima parte di un dittico intitolato 'Il fuoco amico dei ricordi': la seconda parte, 'Inseparabili', vince il premio Strega nel 2012. Ha pubblicato anche i saggi 'Proust antiebreo' (Franco Angeli 2000) e 'Il demone reazionario' (Gaffi 2007). Scrive per il Corriere della sera e per Vanity Fair.

Docente, francesista, come e perché ha iniziato a scrivere romanzi?

Ho provato a scrivere il mio primo romanzo a 17 anni. Era un sogno che coltivavo da parecchio, più o meno da quando leggere era diventata un'esigenza fisiologica, quasi come bere o mangiare. Da allora non ho desiderato fare altro. L'idea di intraprendere la carriera accademica è arrivata in seguito: essere pagato ogni mese per dedicarmi a ciò che amo (i classici francesi) mi sembrava un'opportunità allettante, inoltre l'università mi garantiva una confortevole rispettabilità borghese. Detto questo non ho un'autentica vocazione per l'insegnamento né per la ricerca, e detesto ogni forma di burocrazia universitaria. Mi piace leggere e scrivere. Il resto ha poca importanza.

Il suo esordio nella narrativa, 'Con le peggiori intenzioni', è stato un caso letterario. Come ha vissuto questo improvviso successo?

A causa di un temperamento timido, insicuro e pudico non me la sono goduta. Nel corso della vita ho avuto modo di collezionare anche qualche discreto insuccesso che, per quanto sia lapalissiano specificarlo, mi ha fatto rimpiangere i tonitruanti trionfi degli esordi. Una cosa l'ho capita in merito al successo e all'insuccesso: sono due esperienze vertiginose che mettono in crisi l'integrità della vita interiore. Per questo quando scrivo un libro, e soprattutto quando lo pubblico, tento in ogni modo di non lasciarmi prendere da questo tipo di perniciosa dialettica. Gli editori servono a questo: a godere dei proventi e a gestire le perdite.

Tra le sue opere ci sono anche saggi, quale genere di scrittura sente più suo?

Nello studio di Giovanni Pascoli c'erano tre scrivanie: una per la poesia italiana, una per la poesia latina, una per gli studi danteschi. Io ne ho una sola. Per me la scrittura narrativa e quella saggistica obbediscono a una stessa ispirazione, al punto che spesso si mescolano: i saggi che scrivo hanno sempre un andamento narrativo, così come i romanzi si nutrono delle mie letture. Nabokov diceva che “lo scrittore creativo deve studiare attentamente le opere dei suoi rivali, comprese quelle dell'Onnipotente”. Non esistono scrittori naif, siamo tutti scolari mediocri pronti a copiare il compito del secchione della classe.

Fino al 2005 ha fatto parte di Random, una band rock-blues romana, in qualità di chitarrista solista e cantante. Com'è avvenuto l'incontro con la musica?

L'incontro con la musica è stato precedente a quello con la letteratura per una ragione molto semplice: vengo da una famiglia fissata con la musica, sono cresciuto immerso in questo mondo, la musica era importante, era il centro. Le leggi razziali impedirono a mia nonna di iscriversi all'ultimo anno di Conservatorio in pianoforte. Mio zio, diplomato al Conservatorio in chitarra classica, aveva una collezione di circa 30.000 vinili; mio cugino Micki Piperno è un musicista professionista. Tutti in famiglia suoniamo. A 10 anni mi fu regalata la prima chitarra: una Squier Stratocaster by Fender, bianca con tastiera in palissandro. Essendo un tipo ossessivo mi esercitavo parecchio. Erano gli anni Ottanta, gli anni di Eddie Van Halen, c'era il mito del Guitar Hero. Io sono di quella generazione. Col gruppo avevamo allestito una saletta con un registratore a 8 piste e incidevamo pezzi nostri o cover. Di recente ho ripreso la chitarra in mano e, navigando su Youtube, ho scoperto un mondo incredibile: quando suonavo io dovevi tirarti giù gli assoli col vinile, oggi ci sono i tutorial che più o meno in 20 minuti ti insegnano quello che impiegavi anche mesi ad imparare.

Cosa pensa del connubio tra musica e scrittura? Ha mai messo parole in musica?

Il cantautorato mi piace, non è però il mio genere preferito. Quando suonavo, non scrivevamo vere e proprie canzoni bensì strofe in inglese d'ispirazione rhythm & blues con frasi del tipo “I love you baby” “You've broken my heart”. Più che altro parole eufoniche messe insieme.

Qual è il suo rapporto con la scienza e la divulgazione scientifica?

Ho il tipico atteggiamento degli umanisti goffi e settari: faccio confusione tra un neutrino, un frullatore e un computer. Per me appartengono allo stesso mondo lontano e ostile. Li guardo, però, con un complesso di inferiorità: dopotutto ciò di cui mi occupo (Proust, Baudelaire, ecc.) è materia morta e sepolta; invece la scienza, in continua evoluzione, mi sembra più eccitante e avventurosa. Ma ripeto: è il giudizio di un profano.

Quali sono i suoi progetti per il futuro?

La mia felicità è sempre connessa a un progetto narrativo, quindi non mollo mai la presa. Quando pubblico un libro, per non entrare nell'horror vacui che segue alla sua uscita, devo sempre già averne un altro su cui lavorare, ed è quello che sto facendo ora.