Faccia a faccia

La vastità degli abissi culturali

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di Laura Cardinale

Nove lungometraggi, 20 libri e numerosi documentari. Sono solo una parte dell'immenso lavoro frutto di oltre 50 anni di carriera di Folco Quilici. Lo scrittore, fotografo e documentarista si racconta, partendo dal primo incontro con il mare per arrivare ai progetti futuri

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Folco Quilici, classe 1930, nasce a Ferrara dal giornalista Nello Quilici e dalla pittrice Emma Buzzacchi. Dopo la morte del padre, nel giugno 1940, segue la famiglia durante gli sfollamenti, passando il periodo della guerra lontano dalla sua città. In quel periodo si appassiona alla lettura, soprattutto di testi che parlano di tesori sepolti tra le onde. Dopo essersi trasferito a Roma, studia regia presso il Centro sperimentale di cinematografia, intraprende l'attività e si specializza in riprese sottomarine, diventando popolare anche al di fuori dei confini nazionali. Inizia quindi ad alternare la documentaristica cinematografica con l'attività giornalistica, con una particolare attenzione per le inchieste e i servizi sull'ambiente ma interessandosi anche di arte e storia. Numerose e preziose le collaborazioni, da Italo Calvino a Fernand Braudel. Vincitore di vari premi, tra il 2003 e il 2006 ha presieduto l'Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare (Icram), ente pubblico di ricerca. È tra i soci fondatori dell’'Historical Diving Society’ e dell’Associazione ambientalistica 'Marevivo’.

Padre storico e giornalista, madre pittrice e fotografa. Questo ha influito sulla sua scelta di fare cinema?

Totalmente. Ho scritto sin da piccolo, mentre mia madre mi ha seguito nella fotografia. Uno dei primi filmati fu subito dopo la fine delle superiori: all’uscita del Liceo Tasso ho ripreso gli studenti che andavano a controllare i quadri di fine anno, un video brevissimo... ma drammatico! In seguito, all’università entrai nel cineclub.

Ha avuto altre figure di riferimento, qualcuno da cui trarre ispirazione per le sue opere?

All’inizio no, l’ammirazione per colleghi o collaboratori è arrivata con gli anni e l’esperienza. Un grande amico di cui ho sempre apprezzato il lavoro è lo storico Fernand Braudel, con cui ho collaborato in 'Mediterraneo’, una serie di 13 film cui ha collaborato anche l’antropologo Claude Levi-Strauss.

Da dove nasce il suo interesse per i documentari?

Dall’analisi di quelli visti da giovane. Non mi piacevano, erano troppo oggettivi e mancavano di personalità, quella che io cerco di inserire nei miei lavori. La definizione che preferisco è 'film culturale' perché più che documentare cose mai viste, ad esempio i fondali marini, si tratta di veri e propri racconti. L’unico mio film per cui forse sarebbe adatto il termine documentario è 'Sesto continente', che ottenne il Premio speciale alla Mostra del cinema di Venezia del 1954.

Scrittura, fotografia e video. Con quale si trova maggiormente a suo agio?

In realtà non le trovo diverse. Sono forme di rappresentazione tra loro strettamente connesse e non potrei filmare se prima non scrivessi, come non potrei scrivere senza foto. Sono tutte narrazioni, seppur realizzate con uno strumento diverso.

La maggior parte dei suoi lavori sono collegati al mare.

La casa di mio padre era in montagna e io mi annoiavo moltissimo, sognavo il mare. Ricordo che il mio primo vero contatto fu grazie a un americano, nell’estate del ’45: aveva un paio di pinne che prestava a noi ragazzi. Con un amico milanese all’università, poi, decidemmo di costruirci un apparecchio che potesse permetterci di scattare foto sott’acqua: da lì alla cinepresa il passo fu breve. Avevo voglia di vedere cosa ci fosse sui fondali, di scoprire e raccontare le meraviglie nascoste. Immergermi non è mai stata una passione sportiva, non mi sono mai reputato tanto bravo, era passione cinematografica. Scelsi il campo dei documentari marini perché all’epoca non ci lavorava nessuno e così potei unire le mie due passioni.

Il mare ha sempre attratto l’immaginario umano, ora che è così minacciato, cosa ne pensa?

In effetti il mare si presta molto alle favole. Per questo mi trovo molto bene con la trasposizione di romanzi, proprio perché è molto forte l’elemento fantastico che ben si amalgama con la realtà delle immagini. Ad ogni modo penso che sia presuntuoso da parte dell’uomo credere di essere la sola causa dei problemi ambientali. Glaciazioni e desertificazioni si sono alternate per millenni e il fatto che un cambiamento si stia verificando proprio in questo preciso momento, coincidente con un grande sviluppo tecnologico, è a mio parere una pura coincidenza. Ciò non toglie che è nostro compito cercare di non aggravare questa situazione. Non spetta a noi decidere le sorti del pianeta, in un verso o in un altro.

Ha viaggiato molto, dal Mar Rosso alla Polinesia. Le è mai capitato di ritrovarsi in situazioni pericolose?

Molte volte, a dire il vero. Come dicevo prima non sono un abile sub, se sono vivo è grazie a due o tre amici fidati che mi seguivano sempre, affiancandomi e aiutandomi nei momenti di bisogno. In questo modo potevo permettermi di concentrarmi sull’immersione in sé e non solo sulle riprese. Durante le immersioni è facile commettere errori fatali. Particolarmente rischioso è stato filmare le navi sommerse: era difficile riuscire a percepire le giuste proporzioni, mentre, al contrario, era facile perdere il senso dell’orientamento e non riuscire a ritrovare l’uscita.

In questi anni la tecnologia ha modificato il lavoro del documentarista. Come si trova con il digitale?

All’epoca per girare dovevamo essere in minimo cinque persone e avevamo borse cariche di attrezzature e pellicole ingombranti. Fare viaggi lontani era difficile e dispendioso, in più si aveva sempre la difficoltà di reperire pellicola, quindi bisognava essere estremamente parsimoniosi. Progressivamente ho viaggiato sempre con meno persone, adesso potrei tranquillamente andare da solo con una telecamera piccolissima. Sotto certi punti di vista è più facile, il problema è che adesso, grazie alla disponibilità della tecnologia tutti si improvvisano registi. Tutti filmano, ma nessuno guarda. Sento la mancanza dell’innovazione, come la lirica, i documentari hanno fatto la loro epoca e adesso non si può far altro che riproporre cose già viste. La ricerca dell’ignoto è quasi del tutto scomparsa.

A marzo uscirà il suo nuovo libro, ha altri progetti in cantiere?

Sto scrivendo un romanzo a cui tengo particolarmente, tratto da storie vere di isolani. Ho impiegato quasi tre anni per cercare il materiale. Per ora mi sto dedicando soprattutto a questo.

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