La memoria condivisa dovrebbe essere, assieme ai rapporti fiduciari e alla solidarietà sociale, una delle basi di una comunità coesa. Ma come sappiamo bene la memoria storica, spesso, diventa un fattore divisivo. La recente celebrazione della Giornata in ricordo delle foibe ha prodotto le consuete polemiche politiche, mentre anche attorno al ricordo della Shoah si agitano dibattiti comparativi, riduzionismi quando non negazionismi, tesi a smentire la natura di “male assoluto” della strategia di sterminio degli ebrei praticata dal nazismo.
“Perché la Shoah e non un altro genocidio?”, è la domanda che si pone in questi casi. Ne parliamo con Alberto Guasco, ricercatore all'Istituto di storia dell'Europa mediterranea (Isem) del Cnr. “Perché c'è un'unicità nella Shoah, che va motivata comparandola agli altri stermini novecenteschi. Dov'è questa unicità? Non nel numero, non nella durata, non nell'estensione, non nell'intensità, non nella pianificazione, ma nell'accusa del sangue che rende lo sterminio ebraico un progetto d'annientamento radicale, non arrestabile se non con la scomparsa all'ultimo ebreo”.
Eppure, per quantità ed estensione, tra gli eventi che hanno segnato il Novecento, gli orrori non mancano. Gli armeni sterminati dai turchi nel 1915-1916, gli ucraini di cui Stalin si sbarazzò con una carestia indotta nei primi anni Trenta, i 2 milioni e mezzo di cambogiani sterminati nell'utopia infernale di Pol Pot, solo per fare qualche esempio. Ma c'è una differenza che motiva l'unicità nazista: “Per i Giovani Turchi, gli armeni deportati lontani dall'Anatolia non costituiscono più una minaccia; per Stalin, i contadini sottomessi alle esigenze dell'industrializzazione forzata non sono più un ostacolo; per Pol Pot chi si piega alla durezza della rieducazione può sopravvivere”, risponde lo storico contemporaneista, formatosi all'Università di Torino e già ricercatore presso la Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII. “Per Hitler e i nazionalsocialisti chi è ebreo non può cessare di esserlo. E siccome l'ebreo è ritenuto causa di tutti i mali del mondo, fino in capo al mondo deve essere inseguito ed eliminato”.
Dunque, il pensiero non può che tornare a interrogarsi su questa immane tragedia del “secolo breve”. E sulla funzione del ricordo: “Una catastrofe confitta nella storia e nella cultura dell'Occidente rispetto a cui abbiamo in mano un povero antidoto, l'educare e il ri-educare daccapo ogni generazione. Poiché non si possono non osservare con sgomento le possibilità di male inscritte dentro le società contemporanee e, prima ancora, dentro il cuore dell'uomo; l'eventualità che il re-innesco di circuiti perversi, le micce sono tutte lì, produca conseguenze ancora più catastrofiche”, osserva Guasco.
Dunque il senso del “giorno della memoria” non sta nelle buone intenzioni o nella retorica commemorativa. E persino la stessa memoria non è sufficiente. “Può diventare un monumento, e davanti ai monumenti si passa e non ci si ferma a guardare. Come suggeriva Imre Kertész, sopravvissuto ad Auschwitz e premio Nobel per la letteratura nel 2002, occorre saper pensare la Shoah e la sua incomparabilità: il ricordo, infatti, man mano si svilisce in routine, il pensiero mai”, conclude il ricercatore del Cnr-Isem. A 76 anni di distanza dall'abbattimento dei cancelli di Auschwitz da parte dell'Armata rossa, la memoria è un tema sempre più essenziale se lo si correla al suo opposto: la dimenticanza, l'oblio. “È una dinamica che è stata descritta in modo finissimo da Martin Buber, che nel suo 'I racconti dei Hassidim' la descrive come un'altalena, come se a ciascuno fossero stati messi accanto due angeli, il primo incaricato di fargli ricordare le cose e il secondo di fargliele dimenticare. Dunque, ascoltando il primo angelo, noi ricordiamo”.
Fonte: Alberto Guasco, Istituto di storia dell’Europa mediterranea , email alberto.guasco@cnr.it -