Vita di mare: Lingua e linguaggi

Per comunicare a volte basta un “clic”

Labbra foniche di un delfino
di Ester Cecere

Anche gli animali comunicano tra loro, non sempre utilizzando un linguaggio fonico, ma ricorrendo a modalità diverse quali i movimenti, i colori o gli sguardi. Ester Cecere, dell’Istituto di ricerca sulle acque del Cnr, illustra quelle utilizzate da diverse specie marine concentrandosi in particolare sui cetacei

Pubblicato il

Ricordate la canzoncina "Il coccodrillo come fa?", che vinse la 36a edizione dello Zecchino d'Oro nel 1993? Probabilmente sì, perché è ancora oggi uno dei brani più conosciuti di tutto il repertorio della manifestazione canora. È una canzone in cui si passano in rassegna vari “linguaggi” del regno animale per domandarsi, alla fine, quale sia il verso del coccodrillo. Il motivetto è, ovviamente, destinato ai giovanissimi.

Tuttavia, dobbiamo ricordare che, da un certo momento in poi, l’umanità, ha iniziato a perdere la sua certezza antropocentrica e ha sospettato che anche gli animali fossero in grado di comunicare fra loro. Per secoli personaggi autorevoli ne hanno messo in dubbio la capacità. Aristotele considerava gli animali esseri non senzienti perché privi di “logos”, ovvero di parola e, quindi, anche di ragione. E più recentemente, Cartesio li equiparava a oggetti meccanici, perché privi di linguaggio e quindi incapaci di sentimenti. E, per Sant’Agostino, privi anche di anima.

Oggi sappiamo che non è così, grazie alla nascita di discipline come l’etologia (fondata dal biologo Konrad Lorenz), che studia il comportamento degli animali; la zoosemiotica, che indaga in particolare il comportamento comunicativo degli animali, e la bioacustica, che si occupa delle forme sonore di comunicazione animale, delle situazioni in cui i diversi suoni vengono emessi, dei comportamenti degli individui della stessa specie o di specie diverse.

Per comunicare tutte le specie animali si servono di un linguaggio, non necessariamente fonico, spesso consistente in movimenti, particolari posizioni del corpo, atteggiamenti, colori, espressioni, sguardi. Pensiamo alle danze di corteggiamento di varie specie di uccelli. Alcuni di questi segnali sono temporanei come, ad esempio, i disegni e i colori vistosi delle livree che possono scomparire dopo che il messaggio è stato inviato.

Poiché ci occuperemo di animali marini, pensiamo a polpi, seppie e calamari che, grazie ai cromatofori, cambiano rapidamente di colore non solo per mimetizzarsi ma anche per scambiarsi informazioni. Ad esempio, i polpi usano i toni più scuri per dichiarare la loro aggressività.

Non meno importante nella comunicazione non sonora è la bioluminescenza, il fenomeno per cui alcuni organismi viventi, e sono moltissimi, emettono luce mediante reazioni che trasformano l’energia chimica in energia luminosa. La luce serve per attrarre le prede, spaventare i predatori, attirare il partner, ma anche per scambiarsi informazioni, come nel caso dei pirosomi, invertebrati coloniali appartenenti allo zooplancton marino e, come tali, trasportati dalla corrente. Essi emettono una luce brillante verde-azzurra, che conferisce loro il nome; infatti, “Pyrosoma” in greco significa “corpo di fuoco”. I diversi organismi della colonia comunicano grazie ai lampi di luce blu-verde che consentono loro di coordinarsi affinché si muovano tutti nella stessa direzione.

E adesso veniamo ai cetacei, senza alcun dubbio i più intelligenti e sociali animali marini. I suoni dei cetacei erano noti fin dall’inizio degli anni cinquanta del secolo scorso ma la loro origine era sconosciuta. Infatti, già nel 1952 una nave della marina statunitense ne aveva registrati alcuni al largo delle isole Hawaii tramite un idrofono, un particolare tipo di microfono utilizzato per raccogliere suoni e rumori che si propagano da sorgenti subacquee. Quei particolari suoni prolungati erano stati ascoltati anche da naviganti che, nei momenti di silenzio, li avevano sentiti a bordo delle loro barche a vela o a remi, il cui scafo di legno fungeva da cassa di risonanza mentre le balene ci passavano sotto o vicino.

Tuttavia, lo studio della varietà e complessità dei suoni dei cetacei risale al 1970, quando il biologo statunitense Roger Payne raccolse quelli delle megattere durante il periodo degli accoppiamenti e ne fece un disco, “Songs of the Humpback Whale”. Sorprendentemente, esso rimase per diverse settimane nella Billboard 200, la più importante classifica musicale statunitense e vendette oltre 125.000 copie, contribuendo ad aumentare nell’opinione pubblica la consapevolezza dell’intelligenza di questi mammiferi e la necessità di fermarne la caccia. Il dibattito che ne seguì stimolò il sostegno pubblico per la messa al bando della caccia alle balene, portando a una prima proposta di moratoria avanzata durante la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente  di Stoccolma nel 1972 e a una successiva moratoria, approvata soltanto il 23 luglio 1982 dalla International Whaling Commission (IWC, Commissione internazionale per la caccia alle balene). Le uccisioni di balene furono in larghissima parte fermate e da allora molte specie che erano vicine all’estinzione si sono riprese. 

I “canti” delle megattere (Megaptera novaeangliae Borowski, 1781) sono suoni ripetitivi in varie frequenze, che somigliano appunto a un canto. Sono soprattutto i maschi a produrre queste note per corteggiare le femmine: possono farlo anche se si trovano a 400 chilometri di distanza, dal momento che il suono viaggia più velocemente in acqua che in aria. Gli uccelli sono in grado di comunicare a centinaia di metri di distanza mentre le balene riescono a farlo a centinaia di chilometri. Ogni gruppo di megattere ha una tipologia di canto che risulta personale e distintivo e che con il tempo può subire variazioni e ampliamenti.

Megattera

Una megattera (da Australia, humpback whales are back after a ban on hunting - LifeGate)

 

 

E adesso veniamo ai delfini. Durante i primi anni di vita sviluppano un suono distintivo, una sorta di fischio, unico per ogni delfino, che li differenzia dagli altri membri del gruppo al pari del nome per gli uomini. Il loro alfabeto è caratterizzato da una serie di suoni, pari a dei clic, che vengono ripetuti in modo preciso per creare delle frasi e un dialogo, persino con pause, come è stato dimostrato da uno studio russo pubblicato sulla rivista “Mathematics and Physic”, che ha seguito nel tempo una coppia di delfini riuscendo a identificare le tempistiche della loro conversazione.

Ma non finisce qui. I ricercatori del Woods Hole Oceanographic Institution (WHOI), in uno studio pubblicato su “Proceedings of the National Academy of Sciences”, hanno dimostrato che i delfini cambiano tipologia di linguaggio in presenza dei cuccioli, esattamente come facciamo noi umani: come le madri della specie Homo sapiens, le femmine mettono in atto il “baby talk”. Modificano, cioè, la frequenza delle vocalizzazioni (le frequenze massime risultano leggermente più alte e quelle minime più basse) rallentando la comunicazione per una migliore comprensione da parte dei più piccoli. Chiamandosi anche per nome, facilitano il dialogo e rendono più saldo il legame madre-figlio. Tale particolare interazione, ribattezzata anche come “madrese”, viene messa in atto anche dai pipistrelli e dai primati. Ma c’è di più: i delfini emettono anche forti suoni a impulsi che servono a scoraggiare i predatori ma che vengono usati anche dalle femmine per rimproverare i cuccioli.
Sorprendentemente, anche i cetacei hanno i loro dialetti. Un team di ricercatori tedeschi del Max Planck Institute ha dimostrato che le balene adottano un tipo di suono diverso in base alla zona in cui si trovano.

In passato, era stato osservato che anche nei delfini la comunicazione avviene con espressioni “dialettali”. Lo studio dei tursiopi del Mediterraneo ha evidenziato che gli animali che circondano Lampedusa “bofonchiano” in una lingua diversa da quelli che abitano nel nord della Sardegna. La lontananza fra i due gruppi e l’impossibilità di incontrarsi ha determinato lo sviluppo di “accenti” particolari, segnali acustici che solo gli appartenenti a una certa famiglia possono capire.

E ora veniamo ai capodogli (Physeter macrocephalus Linnaeus, 1758) che emettono una serie di complessi e affascinanti suoni: i "clic" e i “trumpet” (trombette). I primi sono impulsi brevi e rumorosi prodotti dalla compressione dell'aria attraverso il loro sistema respiratorio, utilizzati per comunicare e localizzare le prede. I “trumpet”, meno studiati dei primi, vengono emessi all'inizio dell'immersione e apparentemente solo dai maschi. Furono registrati per la prima volta nel Mar Mediterraneo venticinque anni fa. Recentemente, nel corso delle attività nel Santuario Pelagos (un'area marina protetta nel Tirreno settentrionale compresa nel territorio francese, monegasco e italiano), il progetto “Cetacean Sanctuary Research” di Tethys ne ha registrati più di 200 da 86 individui diversi nell’arco di oltre venti anni. Questa grossa base di dati ha reso possibile la realizzazione di un lavoro scientifico pubblicato dalla prestigiosa rivista "Scientifici Reports" di Nature , in cui gli autori hanno analizzato le caratteristiche acustiche di questo suono e il contesto di emissione allo scopo di capirne il significato funzionale. I ricercatori hanno osservato che i “trumpet” erano comunemente seguiti o preceduti da schemi di clic adatti alla comunicazione, come i codas (sequenze di clic) e/o i clic lenti. Sono emerse relazioni significative tra l'emissione dei trumpet e i clic lenti che hanno sostenuto l'ipotesi che un trumpet sia un suono emesso da maschi maturi nei luoghi di alimentazione.

Nell’ambito del progetto multidisciplinare CETI (Cetacean Translation Initiative), che raggruppa biologi, esperti di robotica, programmatori, analisti, linguisti e crittografi, si sta cercando di interpretare la “lingua” dei capodogli. Attraverso un software, che lavora un po’ come i traduttori automatici e che è in grado di decodificare automaticamente i suoni, il team di CETI sta cercando di realizzare una specie di alfabeto di questi cetacei. I primi risultati hanno mostrato che i suoni dei capodogli sono molto più ricchi di quello che si pensava e derivano dalla combinazione di fonemi, come il nostro linguaggio. I software permettono di distinguere e identificare i singoli individui e le loro “conversazioni” che rassomigliano alle nostre: un capodoglio aspetta che finisca di “parlare” un altro individuo prima di rispondere.

Le interazioni vocali tra gli animali servono agli studiosi anche per fare un censimento di quanti esemplari sono presenti in una determinata zona e quali sono in linea di massima le loro dimensioni, poiché animali grandi emettono suoni con tonalità più profonde.

Esistono cetacei che non sono stati mai visti ma solo “ascoltati” e che, pertanto, vengono distinti da altre specie conosciute soltanto per i suoni che emettono. È questo il caso della “balena dal becco di Cross Seamount”, la specie sconosciuta e identificata soltanto per i suoi versi caratteristici, in attesa di ulteriori ricerche che ne confermino l’esistenza, così chiamata da un gruppo di ricercatori della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia statunitense che si occupa di studi meteorologici e oceanici. Presso Cross Seamount, una montagna sottomarina che si trova circa 300 chilometri a ovest delle isole Hawaii, fu rilevato per la prima volta nel 2005 il particolare richiamo della balena, poi registrato sporadicamente altre volte negli anni successivi.

Le balene dal becco sono odontoceti, cioè sono dotati di denti. Al contrario, balene e balenottere sono misticeti, cioè al posto dei denti hanno i fanoni, placche di cheratina che pendono dalla mascella superiore. La balena misteriosa potrebbe appartenere alla famiglia degli Zifidi (Ziphiidae Gray, 1850) a cui appartengono più di venti specie. Si tratta di una delle famiglie di grandi cetacei meno conosciute: alcune specie sono state descritte solamente negli ultimi venti anni ed è molto probabile che ne rimangano ancora altre da scoprire.

Per analizzare le piccole differenze tra i diversi richiami, gli scienziati si servono soprattutto degli spettrogrammi, grafici che permettono di valutare l’intensità di un suono in funzione del tempo e della frequenza. La frequenza, la durata e le pause intermedie tra i suoni emessi dalle balene dal becco cambiano da specie a specie.

Ma la natura non finisce mai di stupirci. Wikie, una femmina di 14 anni ospite del Marineland Aquarium di Antibes, in Francia, ha imparato a riprodurre alcune semplici parole ("hello", "bye-bye", "Amy", "one", "two") imitando i ricercatori mentre era parzialmente immersa in acqua, con lo sfiatatoio che emergeva. In alcuni casi, ci è riuscita al primo colpo. Quella di imitare suoni tipici di altri animali è un'abilità condivisa solo da delfini, beluga, elefanti, pappagalli e oranghi, e nella quale i cetacei sembrano eccellere. Non solo: l'orca si è dimostrata anche capace di imitare suoni non familiari prodotti da altri suoi simili. Questo potrebbe spiegare come facciano le diverse popolazioni in libertà ad acquisire specifici dialetti.

Negli odontoceti i suoni sono prodotti facendo passare aria attraverso una struttura presente nella testa, simile alla cavità nasale dell'uomo, chiamata "labbra foniche". Quando l'aria passa attraverso questo stretto passaggio, le membrane del labbro fonico vengono risucchiate assieme, provocando la vibrazione dei tessuti circostanti. Al contrario, i misticeti non hanno “labbra foniche” ma una laringe che è responsabile della produzione del suono ma che è priva delle corde vocali come quella dell’uomo.

Oggi, la comunicazione vocale tra gli animali marini rischia di essere seriamente minacciata dell’inquinamento acustico.  I cetacei, infatti, sono molto sensibili ai rumori forti e, purtroppo, sono molte le attività umane che li generano. Pensiamo al rumore causato dal traffico marittimo, dagli impianti eolici offshore, soprattutto in fase di realizzazione, alle onde sonore emesse dai sonar, usati per indagini sismiche, localizzazione di giacimenti di petrolio e gas, banchi di pesci, sommergibili, ecc. Questi suoni appartengono a due categorie: i rumori impulsivi (o a impatto), di breve durata ma ad alte frequenze, che possono ripetersi nel tempo, come quelli provocati dai sonar, e i rumori continui, suoni a frequenze più basse, ma di durata più lunga, come quelli causati dal traffico marittimo.

Questi rumori interferiscono con la comunicazione e possono avere effetti dannosi sui cetacei, alterandone il comportamento e la fisiologia. È stato osservato che le megattere non cantano più quando passano i traghetti, ostentano un mutismo prolungato durante le prospezioni sismiche ed evitano alcune zone di alimentazione in presenza di fonti di rumore. Nelle acque al largo di  Vancouver, in Canada, l’aumentato traffico marittimo ha fatto sì che alcune orche abbiano cambiato la frequenza e aumentato il volume dei loro suoni, probabilmente nel tentativo di continuare ad ascoltarsi.

Vocalizzare in contesti rumorosi richiede un maggiore dispendio energetico, che non tutte le specie si possono permettere. Inoltre, il rumore limita la possibilità di captare i messaggi e interpretarli, ostacolando anche la ricerca del partner e, poiché nel canto c’è una componente culturale, l’inquinamento acustico ha un effetto sull’apprendimento e la trasmissione. I cetacei, infatti, sono più dipendenti dal suono per la comunicazione rispetto agli animali terrestri, in cui è la vista a svolgere il ruolo principale, poiché l'assorbimento della luce da parte dell'acqua rende la visione difficile e il suo movimento relativamente lento rispetto a quello dell'aria diminuisce l'efficacia dell'olfatto. Pertanto, è di primaria importanza mantenere il rumore di fondo nei mari entro livelli che garantiscano il continuo e ininterrotto scambio di informazioni tra questi mammiferi.

Tematiche
Argomenti