Le onde sonore e l’ecolocalizzazione nei cetacei
Se le onde radio - con le quali Guglielmo Marconi ha reso possibile l’invio di segnali a distanza senza l’utilizzo di fili - hanno trasformato la nostra vita, le onde sonore sono fondamentali per alcuni animali, tra i quali delfini, orche e capodogli. Ester Cecere, dell’Istituto di ricerca sulle acque spiega come sia proprio grazie ad esse che queste specie possono utilizzare l’ecolocalizzazione, riuscendo così a orientarsi e individuare eventuali ostacoli
Le onde radio hanno rivoluzionato la nostra vita, anche se spesso non ce ne rendiamo conto. Propagandosi nel vuoto, come lo spazio interplanetario, e in mezzi poco densi, come l’atmosfera, consentono il trasporto wireless (senza fili) di informazioni e ogni forma di comunicazione a distanza. Pensiamo a radio, televisione, telefoni cellulari, satelliti artificiali, radar e a quanto questi dispositivi facciano parte della nostra quotidianità. Scoperte dal fisico tedesco Einrich Hertz nel 1888, il loro utilizzo per inviare segnali a distanza, superando la necessità dei fili della telegrafia ordinaria si deve a Guglielmo Marconi.
Non meno importanti, e non solo per gli umani, sono però anche le onde sonore, che, al contrario delle onde radio, si propagano in un mezzo materiale, come l'aria o l'acqua. Infatti, quando un corpo vibra in un mezzo materiale mette in vibrazione le particelle del mezzo stesso in cui è immerso e trasmette a distanza la vibrazione attraverso un'onda elastica, detta onda sonora o acustica. Ed è proprio grazie alle onde sonore che alcuni animali quando camminano, nuotano o volano riescono a orientarsi, soprattutto di notte.
Questa capacità di alcuni animali di caratterizzare un ambiente, individuando gli ostacoli fisici, i predatori e le prede, grazie alla loro capacità di emettere onde sonore che rimbalzano sugli oggetti colpiti restituendo informazioni utili all’animale è la cosiddetta ecolocalizzazione, chiamata anche biosonar. Questo sistema permette anche di conoscere la distanza tra essi e l’oggetto grazie al tempo impiegato dall’onda sonora inviata per tornare indietro. Per decodificare questo messaggio è necessario però che l’animale abbia un’anatomia particolare.
Il termine ecolocalizzazione fu usato per la prima volta nel 1938, dopo diversi studi condotti su alcune specie di pipistrelli, che hanno una vista molto debole e, nella maggior parte dei casi, cacciano di notte e possono farlo proprio grazie al biosonar di cui dispongono, che permette loro di evitare ostacoli (rocce, alberi), predatori e di individuare le prede. Il biosonar è utilizzato anche da altri uccelli, come le rondini salangane, il rondone eurasiatico e il guaciaro (Steatornis caripensis Humboldt, 1817), noto anche come “uccello delle caverne”, ma è fondamentale anche per alcuni animali marini come i cetacei odontoceti (delfini, orche e capodogli), che hanno i denti, mentre non serve ai cetacei misticeti, come le balene, che non possiedono denti bensì fanoni. Negli odontoceti sono necessari degli adattamenti anatomici che consentano loro di avvalersi del biosonar.
Ecolocalizzazione nei cetacei
Gli ultrasuoni (suoni caratterizzati da una frequenza maggiore di 20.000 Hz) vengono prodotti dal passaggio di aria nelle cavità nasali attraverso delle membrane vibranti, dette labbra foniche; successivamente, essi sono convogliati verso il “melone”, un organo, collocato nel capo degli odontoceti, che contiene tessuto adiposo in grado di funzionare come un megafono per amplificare e indirizzare il suono. In questo modo il fascio di onde lanciato colpisce gli oggetti, viene da essi riflesso e torna verso l’animale. L’eco di ritorno viene percepito attraverso la mandibola inferiore, che funge da recettore, la quale invia il segnale fino all’orecchio per mezzo di un ulteriore deposito adiposo che si estende fino alla mandibola. Il sistema recettivo è collegato al cervello, che elabora le onde sonore in informazioni visive; nel caso delle prede, ad esempio, permette al cetaceo di capire se si tratta di un pesce o di un altro organismo. Inoltre, fornisce informazioni anche circa la distanza degli oggetti sulla base del tempo impiegato dal suono riflesso a tornare indietro. Il biosonar serve ai cetacei anche per trovare il partner nel periodo dell’accoppiamento.
L’ecolocalizzazione nei cetacei, come forma di adattamento, ha avuto origine all’inizio dell’Oligocene, tra 35 e 32 milioni di anni fa, quando la linea evolutiva degli odontoceti si è separata da quella dei misticeti. I cetacei si sono adattati alle caratteristiche acustiche dell’ambiente, il cosiddetto “paesaggio sonoro”, costituito dall’insieme tipico di suoni biologici (prodotti da invertebrati, pesci e mammiferi marini), ma anche dal moto ondoso, dal vento, dalla pioggia, dai microsismi del fondale. A questo rumore gli animali si sono abituati nel corso dell'evoluzione, adattando la loro sensibilità uditiva e sviluppando schemi di comunicazione adeguati. Ora si trovano però ad affrontare un ambiente alterato dalle attività umane anche nelle caratteristiche sonore: sott'acqua sono sempre di più i nuovi rumori e segnali - dagli infrasuoni agli ultrasuoni - prodotti dal traffico navale, dalle nuove tecnologie per individuare navi e sottomarini, per cercare relitti, per trasmettere informazioni, per misurare la temperatura delle diverse masse d’acqua, per individuare i banchi di pesci, per studiare la crosta terrestre e per effettuare prospezioni petrolifere e minerarie. Tutto questo rumore, questo inquinamento acustico prodotto in mare dalle attività umane può interferire in vario modo con la vita animale, fonti di rumore di elevata potenza possono provocare gravi danni fisici non solo alle strutture dell’apparato uditivo, ma anche ad altri organi (traumi meccanici ed embolie) e provocare la morte degli animali sia per danni diretti che per cause indirette, mediate da particolari risposte comportamentali. È importante, quindi, conoscere i limiti di tollerabilità al rumore, per comprendere in quali casi la morte di animali rinvenuti spiaggiati sia da attribuire a tali cause.
Fonti di rumore
Oltre che produrre danni diretti e immediati, quali la diminuzione di sensibilità uditiva sia temporanea sia permanente, il rumore antropico, anche se di non elevata intensità ma diffuso su ampie aree come nel caso del traffico navale, può agire in modo difficilmente identificabile: può interferire con i processi di comunicazione fra gli animali, mascherandone i segnali. In tal caso, può limitare la capacità degli animali di chiamarsi e di riconoscersi, per esempio nel periodo riproduttivo, ma anche di segnalare situazioni di pericolo o di individuare ostacoli e prede tramite il biosonar.
Il rumore può altresì indurre alterazioni del comportamento, con conseguenze anche letali, come allontanamento da determinate aree, deviazioni dalle usuali rotte di migrazione, cessazione o alterazione delle vocalizzazioni con gravi implicazioni per la sopravvivenza delle specie interessate e imprevedibili conseguenze ecologiche per l’ambiente marino. È sato accertato che molti spiaggiamenti di cetacei sono dovuti a perdita dell’orientamento o addirittura a embolie dovute a rapide riemersioni in seguito al rumore, è necessario pertanto mettere in atto misure di mitigazione, quali l’adozione di tecnologie insonorizzanti e/o più silenziose (es. motori elettrici), ma anche la diminuzione della velocità delle grandi navi e la modifica delle rotte di navigazione. Ovviamente, al fine di produrre gli effetti desiderati, tali strategie vanno previste in convenzioni internazionali vincolanti.