Editoriale

Largo ai giovani, largo al futuro

giovani
di Marco Ferrazzoli

La fine dell'anno è un periodo di bilanci e previsioni. Certo, il domani è imprevedibile, ma guardare in avanti è inevitabile, come il tentativo di indirizzare il nostro domani. È questa anche la chiave della ricerca scientifica, come il presidente Massimo Inguscio ha ricordato nelle celebrazioni per i 95 anni del Consiglio nazionale delle ricerche. Queste considerazioni devono spronare sempre più i ragazzi a investire su loro stessi, puntando su formazione, conoscenza, competenze, curiosità

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Non abbiamo trovato argomento più adatto dei giovani, per il Focus monografico dell'ultimo numero del 2018 dell'Almanacco della Scienza. La fine dell'anno è un periodo di bilanci ma soprattutto di speranze, auspici, previsioni. Certo, “è difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro”, come dice una battuta attribuita al danese Niels Bohr, premio Nobel per la Fisica nel 1922, e che circola molto tra gli economisti (i quali la confermarono non prevedendo la crisi del 2008). Ma guardare in avanti è anche inevitabile, poiché la storia non si ferma e non torna mai indietro: quando sosteniamo tale tesi, per esempio guardando a quelle parti di mondo che sembrano vivere una sorta di 'medioevo', siamo vittime di un difetto ottico, dovuto proprio al fatto che l'imprevedibilità del futuro può anche contemplare degli apparenti 'ritorni'.

Del resto, basta che ciascuno di noi osservi la propria biografia: i tentativi di indirizzare il nostro domani sono in gran parte vani. È questa, in fondo, anche la chiave della ricerca scientifica, che lega in modo indissolubile il passato, cioè le conoscenze pregresse, a un futuro fatto di intuizione e fantasia. Nelle celebrazioni che abbiamo tenuto di recente per i 95 anni del Consiglio nazionale delle ricerche alla presenza delle massime autorità dello Stato, il presidente Massimo Inguscio, nel proprio discorso, ha fatto riferimento proprio alla “imprevedibilità delle scoperte”. La distinzione tra ricerca di base e applicata è ormai superata, almeno quanto quella tra le cosiddette 'due culture' umanistica e scientifica, tanto è imponderabile l'utilità pratica delle cose che man mano comprendiamo. E lo stesso messaggio, per fare un esempio del tutto diverso, arriva dalla fantascienza, che ha immaginato un futuro popolato di macchine volanti e viaggi spaziali: la tecnologia che più si è sviluppata è invece quella della comunicazione immateriale.

Queste considerazioni devono spronare sempre più i giovani a investire su loro stessi, puntando su formazione, conoscenza, competenze, curiosità. Proprio perché il loro domani prenderà comunque direzioni sorprendenti e diversissime da quelle che oggi possono immaginare. Dobbiamo insistere su questo poiché, con la scomparsa delle ideologie dell'Ottocento e del secolo successivo, che nel bene e nel male hanno sostenuto e spinto progetti, programmi, utopie, sogni (o incubi) collettivi, rischiamo scompaiano anche concetti e termini che i giovani devono aver sempre davanti come traguardo: modernità, progresso, futuro, innovazione, sviluppo, crescita. Già nel 1979, Jean François Lyotard affermava ne 'La condizione postmoderna' che eravamo giunti al termine delle “grandi narrazioni”, degli orizzonti globali e messianici, e che si apriva un'epoca frammentata, scettica e disillusa. “Non c'è più il futuro di una volta”, potremmo dire.

Ai “laudatores temporis acti”, abituati a dire “ai miei tempi” o che “era meglio prima”, Michel Serres, professore di Storia della scienza alla Sorbona e all'Accademico di Francia, in 'Contro i bei tempi andati' (Bollati Boringhieri) ricorda dall'alto dei suoi 88 anni quanto fosse bello farsi “cavare i denti” senza analgesici e antiinfiammatori, quando dilagavano povertà e fame, guerra e malattia, Hitler e Stalin. Incentiviamo i ragazzi alla ricerca come investimento, a fare rete e sistema, al trasferimento tecnologico, alla trasformazione della conoscenza in impresa, all'importanza di avere sempre più numerosi e migliori laureati, ad avere fiducia nel futuro. Senza chiedersi quanto esso sia “aperto”, quanto gli eventi passati imprimano un'impronta deterministica. Come osservano Samuele Iaquinto e Giuliano Torrengo in 'Filosofia del futuro' (Raffaello Cortina), un conto è dire che “le leggi fisiche non lasciano spazio ad alternative”, giacché per certo domattina il sole sorgerà di nuovo, altra è la questione “della nostra capacità di influenzare il futuro e della nostra libertà di farlo”.