Focus: Guerra

Bambini contro

No war
di Sandra Fiore

Vittime dei conflitti mondiali, degli estremisti islamici, indottrinati alla guerra fin dalla tenera età, sono destinati a pagare le conseguenze più pesanti della guerra. Alla sofferenza fisica si aggiunge quella psicologica, incalcolabile: depressione, angoscia, apatia, violenza e ricorso ad alcol e sostanze stupefacenti per dimenticare

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Vietnam

Sono trascorsi più di quarant’anni da quando la foto di Kim Phuk, la bambina vietnamita immortalata dallo scatto di Nick Ut, dell’Associated Press, faceva il giro del mondo scuotendo le coscienze, tanto che l’immagine valse al reporter il premio Pulitzer. La bambina che fugge nuda e terrorizzata con altri coetanei mostra con agghiacciante verità le conseguenze della guerra sui più deboli e indifesi: i bambini.

A dispetto di quella foto del 1972 i bambini minacciati e vittime della guerra continuano a essere ancora tanti e la schiera si accresce non solo di orfani e profughi ma anche di piccoli soldati, fenomeno diffuso soprattutto nella Jihad islamica. Il dramma è stato svelato in tutta la sua inaspettata dimensione da una recente indagine dell’Onu: stando ai dati, nel mondo i soldati bambini sarebbero oltre 250 mila, in età compresa dai 6 anni all’adolescenza, ma le Ong ne contano più di 300 mila, di cui il 4% femmine. Tale esercito costituisce un’enorme risorsa per l’economia illegale e il crimine organizzato. Testimoni o essi stessi artefici di atrocità, questi minori porteranno per sempre i segni di un'infanzia mancata.

“Sono ormai abbastanza noti gli effetti psicologici e fisici sul bambino del vivere l’esperienza della guerra: la paura di perdere la propria vita e quella dei propri cari, la perdita effettiva di famigliari, di amici e di altri importanti punti di riferimento, la fame, le malattie, il dolore fisico, l’essere testimone di gravi o gravissimi atti di crudeltà, la solitudine” spiega Camilla Pagani dell’Istituto di scienze e tecnologie della cognizione (Istc) del Consiglio nazionale delle ricerche. “Le conseguenze possono essere molteplici e presentare in molti casi le caratteristiche proprie del disturbo post-traumatico da stress, ad esempio depressione, angoscia, apatia, crisi di pianto, tachicardia, disturbi del sonno, difficoltà a concentrarsi, irritabilità, stato di confusione, aggressività”.

Nella psiche del bambino possono addirittura farsi strada i sensi di colpa per essere sopravvissuto, con la perdita della voglia di vita. “È successo a Sarajevo durante la guerra bosniaca: molti bambini prendevano sempre meno precauzioni contro i cecchini, come se cercassero un modo di suicidarsi passivamente”, continua la ricercatrice. Il rapporto tra violenza di cui si è spettatori e violenza agita è particolarmente significativo e complesso. “In genere il bambino imita i comportamenti e gli atteggiamenti di adulti, per cui è facile riscontrare un aumento dell’aggressività in contesti violenti. Addirittura si può verificare quel fenomeno estremo: l’assuefazione alla violenza, in una sorta di desensibilizzazione emozionale”, prosegue Pagani. “Tuttavia è importante osservare che alcuni minori, nonostante vivano queste esperienze negative, sono in grado di sviluppare atteggiamenti di empatia e di solidarietà nei confronti di altri esseri umani e di preservare un sentimento di speranza e ottimismo verso la vita. Esempi emblematici sono stati Anna Frank e Zlata Filipoviè, la ragazzina di 13 anni che ha raccontato gli orrori della guerra a Sarajevo”.

I bambini educati all’uso delle armi presentano una situazione ancora più grave. “Le conseguenze sono estremamente pesanti: spesso si drogano, si danno all’alcool per fronteggiare gli enormi sensi di colpa indotti dalle azioni violente che hanno commesso, possono soffrire di incubi e allucinazioni, provare la sensazione di essere sempre in guerra o vivere una sorta di estraniamento nel tentativo di difendersi dall’assalto dei ricordi”, conclude la ricercatrice. “Per questi piccoli sarebbero indispensabili interventi di supporto psicologico, tra cui, ad esempio, quelli che mirano alla riconciliazione con le vittime e i parenti delle vittime”.

 

Fonte: Camilla Pagani, Istituto di scienze e tecnologie della cognizione, Roma, tel. 06/44595311 , email camilla.pagani@istc.cnr.it -

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