Editoriale

L'Italia cresce ma non abbastanza

L'Istat colloca l'Italia, con una spesa in ricerca e sviluppo dell'1,23% del Pil, a metà classifica fra i paesi dell'Unione Europea, la cui media di investimenti è dell'1,92%. L'obiettivo della strategia Europa 2020, come già quello di Lisbona, è del 3%. C'è però un dato positivo: le risorse destinate al comparto negli ultimi tre anni sono cresciute all'incirca come in Germania, Francia e Regno Unito. E anche il distacco dai partner europei nella spesa a carico delle imprese, tradizionale nota dolente del n
di Marco Ferrazzoli

Investimento in ricerca: le cose migliorano ma il gap con la media comunitaria e con gli obiettivi di Europa 2020 è ancora ampio da colmare. Dall'attuale 1,23% di spesa in R&S dovremmo arrivare al 3%

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Ma la ricerca non si fa solo con le risorse finanziarie, servono investimenti anche per quelle umane. Dal 2000 al 2007 in Italia i laureati sono diminuiti, mentre in Cina sono aumentati da due a sei milioni, e sia la quota di popolazione con istruzione universitaria sia quella iscritta alla formazione continua sono inferiori alla media Ue (rispettivamente, 11,6% contro il 22,8 e 6,8% contro il 9,8).

L'Istat colloca l'Italia, con una spesa in ricerca e sviluppo dell'1,23% del Pil, a metà classifica fra i paesi dell'Unione Europea, la cui media di investimenti è dell'1,92%. L'obiettivo della strategia Europa 2020, come già quello di Lisbona, è del 3%. C'è però un dato positivo: le risorse destinate al comparto negli ultimi tre anni sono cresciute all'incirca come in Germania, Francia e Regno Unito. E anche il distacco dai partner europei nella spesa a carico delle imprese, tradizionale nota dolente del nostro Paese, è in riduzione grazie a un incremento annuo del 7,9% (in termini nominali).

Certo, guardando in alto si vedono il 3,72% del Pil destinato a R&S dalla Finlandia il 3,7 della Svezia e il 2,68 della Germania (dati 2008), mentre sotto di noi troviamo le Repubbliche baltiche, Malta, Polonia e Romania. Ma un sistema come il nostro che poggia sulle pmi - e che pure consente all'Italia di fare il 12,2% del Pil dell'Unione - non favorisce la spesa industriale in innovazione, che è concentrata per quasi tre quarti nelle imprese oltre i 500 addetti: nella classifica delle prime mille società private dell'Unione per investimenti in ricerca ne troviamo non a caso appena 50 italiane, contro 289 britanniche, 189 tedesche e 113 francesi.

Secondo l'Istituto di statistica, se avessimo industrie di dimensioni analoghe a quelle tedesche, il nostro investimento in R&S crescerebbe di 2,6 volte. E la Banca d'Italia addebita proprio al "nanismo" e all'immobilismo dimensionale dell'imprenditoria italiano la difficoltà per cui non riusciamo ad accelerare la crescita economica: la media azienda di casa nostra conta appena 8 addetti, tre in meno delle concorrenti spagnole e sei in meno delle francesi, per non parlare delle apparentemente irraggiungibili aziende tedesche (35 addetti).

Altro atavico problema italiano, la disomogeneità territoriale, anche se in questo caso non si tratta del consueto problema delle 'due velocità' tra Nord e Sud. Anzi, anche alcune regioni meridionali come Calabria, Campania e Puglia evidenziano una tendenza all'incremento, in una graduatoria che vede in testa il iemonte e il Lazio (che ha appena presentato il suo Programma strategico per la ricerca, l'innovazione e il trasferimento tecnologico).

Ma la ricerca non si fa solo con le risorse finanziarie, servono investimenti anche per quelle umane. Dal 2000 al 2007 in Italia i laureati sono diminuiti, mentre in Cina sono aumentati da due a sei milioni, e sia la quota di popolazione con istruzione universitaria sia quella iscritta alla formazione continua sono inferiori alla media Ue (rispettivamente, 11,6% contro il 22,8 e 6,8% contro il 9,8).

Addirittura, la media di 20-24 anni che hanno lasciato gli studi prima del diploma superiore è pari al 18%, per di più con una forte differenza di genere (22,0% fra i ragazzi, 15,4% fra le ragazze) e locale: in Sicilia, lascia la scuola prima della maturità più di un quarto dei giovani. Europa 2020 raccomanda di contenere gli abbandoni scolastici sotto il 10%