Xylella, racconti contaminati
Dalla scoperta, in Puglia nel 2013, del patogeno Xylella fastidiosa, che ha colpito gli ulivi spesso in forma letale, la comunicazione su questa emergenza fitosanitaria è stata condizionata da informazioni distorte, che hanno determinato un violento attacco alla ricerca scientifica. Federica Zabini dell’Istituto per la bioeconomia ripercorre la vicenda e la sua narrazione
Se la Xylella fastidiosa era ben nota alla comunità scientifica e la sua possibile diffusione in Europa era considerata da anni una grave minaccia per i sistemi agro-forestali, nel 2013 in Salento era la prima volta che il batterio attaccava gli ulivi. Non si sapeva quali altre specie locali potessero essere infettabili dal ceppo, quali impatti potesse avere su piante mai prima esposte al batterio né quali potessero essere i vettori principali responsabili del contagio. Anche la reale diffusione in Salento non era ovviamente nota: si passa da un’ipotesi iniziale di 200.000 piante infette ad almeno un milione di esemplari nel 2015. La forte opposizione della comunità pugliese rispetto alle drastiche misure di contenimento potrebbe forse avere delle attenuanti, non solo per l’importanza dell’ulivo nel contesto paesaggistico-storico-culturale locale, ma anche per l’assenza di un’adeguata informazione istituzionale e per il quadro conoscitivo inizialmente incerto, che ha favorito il proliferare di idee e versioni alternative, spesso animate da uno spirito antiscientifico di diffidenza, di difesa e soprattutto di negazione.
Detto questo, la creazione e circolazione incontrollata di sospetti e fake news ha generato un “contagio informativo” sull’emergenza che rende il “caso Xylella” uno dei più potenti casi di scorretta comunicazione non solo scientifica degli ultimi anni. Le fonti della disinformazione sono state tante, così come i mezzi di comunicazione attraverso i quali sono state veicolate. Persino i media tradizionali hanno spesso fatto da amplificatore, per motivi di "notiziabilità" ma anche di scarsa competenza e accortezza nella comunicazione scientifica, quando non per approcci meramente ideologici. Nel caso della Xylella questi “racconti contaminati” sono entrati anche nel discorso giudiziario e politico, sono stati fatti propri da attori influenti, che hanno contribuito a legittimarli e a farli prosperare. L'indagine avviata dalla Procura di Lecce, sposando alcune tesi non scientificamente comprovate, ha fortemente inciso sul lavoro e sulla credibilità dei ricercatori, determinando un grave danno alla scienza e alla gestione fitosanitaria dell’emergenza.
Uno degli elementi che fa da sfondo all’intera vicenda è una sorta di delirio cospiratorio, che riconduce il manifestarsi di un evento molto grave a un'intenzionale ostilità da parte di soggetti “altri”. Questo “sentimento” di base - e quindi l’idea che il Salento sia oggetto di interessi tesi a svenderlo, “contaminandolo” - ha nutrito un atteggiamento di sospetto che ha travolto anche le istituzioni scientifiche impegnate nel fronteggiare l’emergenza, generando una moltitudine di narrazioni distorte.
In questa cornice, un workshop sulla Xylella nel 2010 o anche le attività “ordinarie” sull’olivicoltura condotte dall'Università di Bari diventano prova a conforto dell’ipotesi dell’esistenza di un piano per sostituire le varietà di ulivi presenti con altre varietà brevettate, con enormi vantaggi economici. I ricercatori sono accusati di aver introdotto il “batterio killer” in Salento: nell’ipotesi più blanda per negligenza e sciatteria, dolosamente in quella più estrema. In linea con la visione complottista della ricerca al soldo dei potentati economici, i presunti interessi degli scienziati sarebbero intrecciati con quelli delle multinazionali.
Accanto alla “caccia all’untore” e alle accuse di “ecocidio”, forma estrema di attacco alla scienza, ci sono poi visioni più moderate, che hanno nondimeno contribuito a ingarbugliare il quadro delle conoscenze scientifiche che si andavano delineando, minando la legittimità delle misure fitosanitarie necessarie a contrastare efficacemente l’epidemia. Lo scetticismo sulla Xylella come agente causale del “Complesso del disseccamento rapido dell'olivo” (CoDiRO) e della moria delle piante è uno degli argomenti che ha più segnato il dibattito, spesso di pari passo con la negazione stessa del batterio e/o della sua letalità. L’“ostinazione” dei ricercatori baresi (Università e Istituto per la protezione sostenibile delle piante del Cnr) nel focalizzarsi sull’agente batterico, tralasciando altre potenziali concause (funghi, insetti), viene vista con sospetto.
Tra il 2014 e il 2015 le evidenze scientifiche acquisite avevano già fatto crollare buona parte delle tesi "alternative" e diradato molte incertezze. Con la dimostrazione della patogenicità della Xylella, nel 2016, era finalmente lecito aspettarsi il passaggio a una fase nuova, in cui la voce delle istituzioni scientifiche potesse finalmente acquisire piena legittimazione pubblica e in cui gli atteggiamenti negazionisti fossero fugati. Eppure, ancora nel 2019, si dava spazio a idee infondate sulla pericolosità del batterio e a illazioni sull’uso strumentale della Xylella per lo sfruttamento del territorio.
Un altro tema che ha a lungo deviato l’attenzione pubblica è stato quello della possibilità di curare gli alberi colpiti. Dalle onde elettromagnetiche alle buone pratiche agronomiche, dalla terapia criogenica a miracolosi detergenti, tutto ha avuto eco mediatica, senza approfondimento delle fonti, senza valutare il peso scientifico delle soluzioni prospettate, gridando magari alla "trovata cura per la Xylella”. Oltre a creare false speranze, questo frame comunicativo ha rinnovato la sfiducia verso la “scienza ufficiale”, rea di non occuparsi di trovare rimedi, inficiando il lavoro dei ricercatori che, in un clima non facile, hanno portato in tempi rapidi a solide evidenze sul vettore patogeno, sul suo decorso epidemico e sulle varietà di ulivo resistenti, a oggi unica speranza per il reimpianto di nuovi oliveti e per la salvaguardia degli ulivi monumentali mediante il sovrainnesto.
Dinanzi ad un disastro ambientale di una gravità senza precedenti nel nostro Paese, va preso atto che la scienza è stata incapace di imporsi come fonte primaria di informazione sull’emergenza; la sua voce non è riuscita a prevalere sul coro di informazioni, opinioni, narrazioni più o meno fantasiose che hanno fortemente influenzato l’opinione pubblica.
Fonte: Federica Zabini, Istituto per la bioeconomia, e-mail: federica.zabini@ibe.cnr.it