Editoriale

Incertezza, confusione? Chiamiamola realtà

di Marco Ferrazzoli

La ripartenza è e sarà senz'altro difficile, impegnativa, ma proprio per questo ci offre l'occasione di costruire un futuro migliore, un nuovo modello di sviluppo e sociale, a livello nazionale e globale, nel rapporto tra le persone, tra gli organismi nazionali e internazionali, con l'ambiente. Cerchiamo di coglierla. Abbiamo sottoposto alcuni aspetti di questo momento così complesso ai nostri ricercatori ed esperti del Cnr, nel Focus monografico e nell'intero Almanacco della Scienza troverete alcune risposte

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Abbiamo un dovere civico e personale che non ha alternative: sperare che la cosiddetta fase due, cominciata in questi giorni, porti il nostro Paese e l'intera umanità a rivedere i propri errori e a costruire un futuro migliore. Ascoltando con rispetto, ma senza farsene influenzare, osservatori come Michel Houellebecq, secondo cui il futuro sarà "uguale, ma peggiore". Ricordiamoci che le profezie di sventura sono autoavveranti: se ci disponiamo al peggio, depressi, senza impegnarci, è più probabile che quant

Forse siamo stati troppo ambiziosi, persino azzardati, a pensare di sintetizzare in un numero dell'Almanacco della Scienza e in particolare nel suo Focus monografico un tema enorme come la ripartenza dopo la prima fase di isolamento e limitazioni imposte dal contrasto al Coronavirus. Ma poiché l'incertezza e la confusione sono le percezioni più diffuse in questo periodo - tra le persone comuni e, in parte, tra le stesse istituzioni - al massimo daremo un contributo in tal senso. È ovviamente un battuta, ma non scherziamo affatto dicendo che proprio la consapevolezza della criticità attuale e futura, della difficoltà di compendiare ripresa della vita socio- economica e cautele sanitarie, è il punto di partenza di qualunque seria riflessione, come sanno gli esperti e ricercatori Cnr cui ci siamo rivolti.

La vita, la storia e la scienza obbediscono alla legge ineludibile della loro continua mutevolezza: evoluzione, crescita, sviluppo, progresso. Che ogni crisi sia quindi un'occasione non è uno slogan buonista, nonostante i dati oggettivamente preoccupanti, come il -8% del Pil previsto da Confindustria, e le inevitabili diffidenze, come quelle rilevate da Demos sul calo di consenso ai leader politici tra marzo e aprile. Abbiamo un dovere civico e personale che non ha alternative: sperare che la cosiddetta fase due, cominciata in questi giorni, porti il nostro Paese e l'intera umanità a rivedere i propri errori e a costruire un futuro migliore. Ascoltando con rispetto, ma senza farsene influenzare, osservatori come Michel Houellebecq, secondo cui il futuro sarà "uguale, ma peggiore". Ricordiamoci che le profezie di sventura sono autoavveranti: se ci disponiamo al peggio, depressi, senza impegnarci, è più probabile che quanto paventiamo accada.

Prendiamo qualche spunto. Sin dall'inizio del contagio, istituzioni e media si sono impegnati per fornire informazioni in forma chiara e sintetica, per esempio usando faq o grafici. Ovviamente tali notizie sono cambiate man mano che si acquisivano maggiori conoscenze del virus: le polemiche sollevate sulla qualificazione di alcuni ricercatori chiamati dai media sono pertanto fuorvianti, intanto perché non è ipotizzabile che al pubblico parlino solo i massimi esperti, l'importante è che siano qualificati ed efficaci, e poi perché il loro ruolo non può che essere e deve essere quello di illustrare l'articolazione dinamica della situazione. Per fortuna mass media, popolazione, istituzioni hanno in gran parte ripreso nei confronti della scienza, della conoscenza, della competenza, una fiducia che purtroppo – su questo il nostro presidente Massimo Inguscio ha molto insistito – negli anni scorsi era talvolta stata scalfita, anche su temi di primaria importanza. Ora la comunità scientifica e accademica saprà conservarla, mediando il rispetto della democratica varietà di opinioni riportata dai media con l'affermazione netta della necessità di affidarsi a chi “sa” e studia, quando sono in gioco temi come la salute pubblica, ma anche l'ambiente, l'alimentazione, l'energia, etc.

Altro aspetto da non sottovalutare è che lo “tsunami” Covid-19 si è abbattuto sul nostro Paese e sul Pianeta in un momento già depresso e caotico: stavamo faticosamente cominciando a vedere la luce, dopo un tunnel di crisi che durava da un decennio. Osserva tra altri lo scrittore Alessandro Piperno che già spread, siccità, denatalità italiana e sovrappopolazione mondiale, terrorismo, preoccupazioni ecologiste e paura del nucleare ci avessero abituato a una “retorica apocalittica” da un lato vuol evidenziare la concretezza delle criticità planetarie, ma dall'altro rischia di farci gettare la spugna, quasi fossero un fato ineludibile. L'artista cinese Ai Weiwei ha per esempio rilasciato un'intervista a Repubblica intitolata: “La natura ora si vendica di noi”. Sarebbe bene chiarire che non è la natura a vendicarsi ma noi, stupidamente, a maltrattarla, usarla male, sovrasfruttarla, inquinarla. Basterebbe imparare a conviverci in modo responsabile: perché convinti della giustezza di tali comportamenti, e non solo per timore delle conseguenze: forse la necessità di compendiare esigenze diverse che affronteremo da ora in poi potrebbe aiutarci a capirlo.

Ulteriore elemento che crea sconcerto è la frequente ricorrenza di epidemie e pandemie: solo 17 anni fa esplose l'emergenza Sars, che condivide con la attuale l'origine dal commercio indiscriminato di animali selvatici, pessima abitudine da cui speriamo l'odierna catastrofe ci liberi per sempre. E poi, come italiani ed europei, eravamo supponentemente convinti di essere esentati da contagi gravi, visti come esclusiva di lande distanti. Una parte di verità in questa considerazione c'è: per esempio, la lotta contro l'Ebola in alcuni paesi africani incontra difficoltà dovute all'abitudine di nascondere i casi alle autorità sanitarie, quando non di assaltarle in base a un assurdo complottismo. Ricordo quando, in Senegal, guardavo la sponda opposta del fiume Casamance dove, in Guinea, si moriva per quel terribile contagio: ecco, noi “occidentali” abbiamo coltivato l'illusione che certe cose succedessero solo "dall'altra parte" del mondo. Ora sappiamo che non è vero, basti a ricordarlo la crescita del 49,4% dei decessi in Italia a marzo (dato Istat-Iss).

Ci siamo riempiti la bocca con la parola “globalizzazione” pensando che riguardasse solo le reti, i viaggi low cost e la finanza, e abbiamo scoperto cosa davvero significa essere membri di un'unica comunità. Rispetto alle pesti medievali tante volte richiamate come precedenti storici, quando il contagio si inseriva tra conflitti sanguinosi e contatti commerciali (si pensi alla “via della seta”) tra popoli e terre lontane, non è poi cambiato granché: uomini, merci e virus si muovono sempre, ma molto più velocemente e ampiamente di ieri. Questo dovrebbe indurci a ripensare la geopolitica futura, migliorando l'internazionalizzazione che passa per organismi come Ue e Onu, Oms, Fao, Unesco, puntando a normative comuni nelle emergenze planetarie, fatte salve le autonomie nazionali. Non c'è bisogno di un'invasione di alieni, come nei film di Hollywood, per affratellare tutto il genere umano. E non si tratta, di nuovo, di una mera esortazione etica ma della coscienza che i problemi hanno ormai questa dimensione di scala, si tratti di salute, economia, lavoro, migrazioni, ambiente, clima…

L'inizio della pandemia è avvenuto in quel meraviglioso, immenso, eccezionale, paese che è la Cina, complesso mix di dirigismo politico e liberalismo economico. Questo ci porta alla questione – che è poi un apparente ossimoro – per cui la scienza non è democratica, nel senso che solo la conoscenza obbediente al dato di realtà ha valore rispetto alle opinioni, legittime ma non per questo veritiere; d'altronde, solo la democrazia garantisce la trasparenza e circolazione delle informazioni che della scienza è base imprescindibile. “Non possono esserci zone d'ombra”, ha esortato il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, e il pensiero va ai regimi autoritari e totalitari che occultano la realtà di fatto dei loro paesi, complicando la faticosa ricomposizione del puzzle al quale i ricercatori stanno lavorando in clima di cooperazione. La stessa Unione Europea ha chiesto un'indagine che accerti le effettive origini del virus. Certo, anche gli organismi internazionali avrebbero potuto fare meglio, prima e di più: “Bastava fissare una linea comune”, invocava già a febbraio Roberto Burioni e ora speriamo di proseguire verso questa direzione senza retromarce né deviazioni. Intanto, l'Ue ha raccolto 7,5 miliardi di euro per un vaccino: un segnale concreto e incoraggiante.