Focus: Quaresima

La penitenza? Talvolta è patologica

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di Rita Bugliosi

Prevista nel periodo quaresimale, in preparazione alla Pasqua, è praticata in varie forme anche al di fuori dell'ambito religioso. In taluni casi però, quando è lo stesso “colpevole” ad applicarsela, assume forme morbose. Ne abbiamo parlato con lo psicologo Antonio Cerasa dell'Istituto per la ricerca e l'innovazione biomedica del Cnr

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Il periodo quaresimale che precede la celebrazione della Pasqua prevede nel rito cristiano alcuni atti di penitenza (digiuno, astinenza, preghiera, carità) il cui scopo è la preparazione alla conversione. Ma non è solo la religione a seguire rituali penitenziali. “I riti di espiazione hanno sempre fatto parte dell'esistenza umana e nel tempo il loro ruolo nella società è rimasto quello di contenere le emozioni e promuovere una ristrutturazione del proprio sé”, spiega Antonio Cerasa, psicologo dell'Istituto per la ricerca e l'innovazione biomedica (Irib) del Consiglio nazionale delle ricerche. “Questa visione contenitiva, di matrice psicodinamica, assegna alla penitenza un ruolo di modulatore dell'emotività che deve contrastare la naturale tendenza umana a quegli eccessi che classifichiamo come lussuria o gola”.

Provare pentimento è positivo, poiché indica che si è consapevoli dei propri errori. “Essere coscienti che si merita una penitenza per ciò che si è commesso di scorretto presuppone una maturità cognitiva e morale fondamentale per lo sviluppo psico-educativo del bambino e per la regolazione della vita dell'adulto”, prosegue il ricercatore. “Ma i riti di penitenza hanno anche un ruolo di contenitori sociali, come mostrano le religioni, in cui il rapporto con i peccati deve permettere alla società di autoregolarsi. I peccati, cioè, possono essere compensati da sofferenze autoinflitte (privazione del cibo, astensione da passatempi e divertimenti, mortificazioni del corpo anche dolorose) o da atti di carità, l'entità, in entrambe i casi, dovrebbe variare in base alla gravità delle trasgressioni commesse: più saremo intransigenti con noi stessi e buoni con gli altri, più potremo lenire gli errori compiuti”.

Il pentimento, però, da positivo segno di consapevolezza e di maturità può degenerare e indurre comportamenti patologici. “Come capita con l'alimentazione a molte persone che, per punirsi per aver mangiato troppo o aver assunto cibi poco salutari, si sottopongono a 'penitenze' sotto forme dietetiche a volte eccessive. Il tutto finalizzato a riconquistare peso forma e ventre piatto, ma con il rischio di provare frustrazione, cadere in depressione o scivolare in disturbi del comportamento alimentare, come l'anoressia, la bulimia o l'ortoressia, vere e proprie patologie che non riguardano più solo le adolescenti, come un tempo. Questa visione distorta del pentimento e della penitenza che deriva dagli eccessi a tavola possono condurre a vedere il proprio corpo come nemico da punire e purificare”, sottolinea Cerasa.

Ma forme di penitenza autoinflitte si possono rilevare in altre condizioni cliniche, come i disturbi ossessivo-compulsivi. “Certe persone si impegnano nel compiere sequenze ripetute all'infinito di lavaggio delle mani, pulizia di strumenti o utensili; altri verificano ripetutamente la chiusura a chiave della portiera dell'auto o lo spegnimento del gas; altri ancora si impegnano in attività di conteggio costante o raccolgono gli oggetti in gruppi di numeri particolari, con allineamenti specifici”, conclude lo psicologo del Cnr-Irib. “La maggior parte di queste persone è consapevole dell'irragionevolezza e dell'inutilità di tali ossessioni, ma non riesce a fermare questi rituali”.

Fonte: Antonio Cerasa, Istituto per la ricerca e l'innovazione biomedica , e-mail: antonio.cerasa@cnr.it

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