Cinescienza: Calore

Rotte aride

Una vista di Roma, con il Tevere prosciugato (da una scena del film)
di Danilo Santelli

Il film del regista Paolo Virzì, “Siccità”, racconta la capitale italiana in un presente immaginario, che la vede assetata a causa della carenza d’acqua e assediata da un virus trasmesso dagli insetti. Un’ambientazione nefasta, ancorché futuribile, della quale Cloe Mirenda, ricercatrice dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Cnr, riprende alcuni elementi psicologici e sociali sovrapponibili all’esperienza vissuta qualche anno fa con il Covid-19, con uno sguardo agli effetti che la pandemia sta determinando nella società contemporanea

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Nel 2022 Paolo Virzì esce con il film “Siccità”, nel quale affresca una Roma fiaccata dalla scarsezza d’acqua, visto che la pioggia manca da qualche anno, alle prese con un misterioso virus e con la stringente razionalizzazione delle risorse idriche. Una città nella quale imperversano le blatte, che veicolano l’infezione, attraversata da un fiume Tevere completamente prosciugato e ridotto a un serpentone di terra arsa dal sole. Proprio in questo quadro si articolano le storie di diversi personaggi che abitano la città (tra gli interpreti più noti Valerio Mastandrea, Silvio Orlando e Claudia Pandolfi), costretti a muoversi in uno scenario distopico e pre-apocalittico, ma che ricorda le dinamiche della società contemporanea, pesantemente forgiata dall’esperienza della pandemia causata dal Covid-19 e dai progressivi effetti del riscaldamento globale. “Il Coronavirus, tra i vari aspetti da tenere in considerazione, è stato un demarcatore che ha segnato un prima e un dopo, non soltanto dal punto di vista temporale, ma che ha anche rappresentato un punto di rottura nella storia individuale e collettiva della nostra società. Alcuni studiosi in campo psicologico e psicoanalitico hanno proposto di interpretare l’impatto della pandemia in termini di trauma collettivo, in quanto ha coinvolto più soggetti e ha danneggiato il tessuto sociale, incidendo pesantemente sulla collettività”, spiega Cloe Mirenda, antropologa dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali (Irpps) del Cnr.

Locandina del film Siccità

Ma, al netto di questi cambiamenti determinati dagli eventi pandemici, l’essere umano è sempre soggetto a bias cognitivi, errori di valutazione che possono distorcere la percezione della situazione e della realtà che lo circonda. “Nel periodo del lockdown, ad esempio, tutti ricorderanno lo slogan ‘andrà tutto bene’, con il quale si cercava di guardare avanti, convinti che la situazione potesse volgere al meglio. Questo, seppur comprensibile nella contingenza di quel momento storico, può essere considerato un ‘optimistic bias’, ovvero la tendenza irrealistica a pensare che verrà sicuramente trovata una soluzione efficace a un problema. Un bias che potrebbe giocare a nostro favore, invece, è l’‘availability bias’, ovvero la propensione a considerare più probabile che in futuro si possano ripresentare le dinamiche degli eventi di cui si ha memoria. In virtù di questo bias, aver vissuto gli effetti della pandemia a livello globale e aver sperimentato la caducità e la fragilità della vita dovrebbe allertarci sulla possibilità che qualcosa di simile possa accadere nuovamente, spingendoci ad affrontare con determinazione le sfide socio-ambientali che ci si pongono di fronte, come il rischio di ulteriori pandemie e le conseguenze della crisi climatica in atto”, prosegue la ricercatrice.

E i periodi vissuti obbligatoriamente a casa, in lockdown, hanno gioco forza costretto le persone a intensificare l’utilizzo degli strumenti digitali, per mantenere una relazione con gli altri e per portare avanti i programmi d’istruzione e lavorativi, come la didattica a distanza e lo smart working. E la virtualizzazione delle relazioni, terminata la fase di confinamento all’interno delle mura domestiche, continua ad avere un peso specifico molto forte nella vita degli individui, seppure stia subendo un parziale calo. “Credo che i dispositivi digitali non stiano soppiantando le relazioni vis-à-vis, piuttosto ritengo che abbiano generato un canale parallelo, complementare ma non alternativo, attraverso il quale negli ultimi anni hanno viaggiato a un ritmo veloce nuove dinamiche relazionali più o meno effimere. Oltre a questo, il digitale ha favorito anche una serie di fenomeni più o meno inediti, dal cyberbullismo al ghosting, ovvero l’interruzione repentina di ogni forma di contatto, fino all’emergere del sharenting, per il quale i genitori condividono in rete contenuti e informazioni riguardanti i propri figli. Dopo l’isolamento forzato e l’impennata dell’utilizzo del digitale, la buona notizia è che da un paio di anni la tendenza si sta invertendo. Stiamo assistendo a un fenomeno sociale di crescente stanchezza derivante dall’uso continuo di numerose app, definito appunto ‘app fatigue’. Volendo fare un parallelismo, la differenza tra le relazioni mediate dalla tecnologia e quelle dirette è simile alla differenza tra gli ortaggi del contadino e quelli del supermercato: anche se questi ultimi sono più facili da reperire e consumare, quelli del contadino hanno di norma un sapore più intenso e migliori proprietà nutrizionali”, conclude Mirenda. “Forse siamo giunti al punto in cui, dopo essere stati sedotti e abbagliati dalla facilità di accedere a relazioni affettive e sentimentali spesso effimere, attraverso i nostri dispositivi elettronici, ci siamo accorti del sapore che hanno le relazioni coltivate con lentezza, cura e assunzione del rischio, in presenza. Ad ogni modo, ci sarà chi continuerà a preferire le relazioni virtuali per i vantaggi che queste possono offrire, chi preferirà sviluppare socialità e affettività di persona e chi, ancora, deciderà di mantenersi su tutti e due i binari per godere dei benefici di entrambi”.

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