Vita di mare: Facciamo il punto

Non sono solo gli insetti a pungere

Cubomedusa
di Ester Cecere

A farlo sono anche numerosi animali marini, dalle meduse alle tracine, dal pesce pietra al cosiddetto “corallo di fuoco”. Ester Cecere dell’Istituto di ricerca delle acque del Cnr parla di alcuni di questi e delle caratteristiche e degli effetti delle loro punture

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A pungere non sono solo gli insetti, ma anche alcuni animali marini; le loro punture non sono meno dolorose e talvolta risultano anche letali. Cominciamo dai nostri mari e dalle meduse, il cui blooms, le cosiddette fioriture, in particolare quelle della specie “Pelagia noctiluca” (Forskål, 1775), nota anche come medusa luminosa per il fenomeno della bioluminescenza, la scorsa estate ha ostacolato non poco la balneazione. Le meduse sono urticanti poiché i loro tentacoli ospitano delle particolari cellule, dette cnidocisti, che secernono un veleno che serve per predare ma anche per difendersi. Le cnidocisti hanno dei sensori che, al contatto con un corpo estraneo, determinano l’estroflessione del filamento urticante che inietta il veleno nella preda, uccidendola per shock anafilattico. Il liquido urticante ha azione neurotossica o infiammatoria, la cui natura può variare a seconda della specie, ma di solito è costituita da una miscela di tre proteine a effetto sinergico: ipnossina, talassina e congestina. Queste sostanze sono responsabili rispettivamente dell'anestesia della preda, del comportamento allergenico e della paralisi dell'apparato circolatorio. Per gli uomini, si parla di ustione perché l’effetto della tossina è molto simile a quello che ci procura un’ustione; quindi, nei casi più gravi, si forma un edema sottocutaneo e la pelle si stacca, mentre nei casi meno importanti si accusa bruciore e/o prurito che possono dare anche molto fastidio.

Ma nel mare a pungere sono in parecchi. Pensiamo ai ricci, che possono ferirci con i loro aculei se calpestati inavvertitamente o afferrati con poca attenzione. La loro puntura non è letale ma, se l’stremità degli aculei si rompe e rimane conficcata nella pelle, può essere necessario ricorrere addirittura al bisturi.

Sempre restando nel Mediterraneo, è d’obbligo ricordare il “vermocane” (Hermodice carunculata Pallas, 1766), detto “verme di fuoco” perché dotato di setole urticanti. Si tratta di un polichete, cioè di un verme errante, della lunghezza media di 15 cm, ma che può arrivare a 30, presente anche a basse profondità. Se inavvertitamente sfiorato, le sue setole possono penetrare nella pelle, dove iniettano una potente neurotossina che causa una dolorosa sensazione di bruciore.

E non dimentichiamo la tracina vipera (Echiicthys vipera, Cuvier, 1829), che vive infossata nei fondi sabbiosi, di solito in acque basse e, pertanto, può essere facilmente calpestata. I raggi della prima pinna dorsale sono cavi e collegati a una ghiandola velenifera. La puntura provoca un dolore violento, che si irradia alle zone circostanti a quella interessata e può durare anche per ore. Per alleviarlo bisogna immergere la parte colpita in acqua molto calda per almeno 30 minuti, poiché la tossina è termolabile. Il veleno, neurotossico ed emolitico, non è letale per l’uomo, ma in caso di difficoltà respiratoria o di calo di pressione è necessario recarsi al pronto soccorso.

Il pesce pietra, presente nell’Australia tropicale con due specie, può colpire come le tracine, ma il suo veleno è uno dei più potenti tra quelli delle specie ittiche e può anche essere letale. Infatti, perfettamente mimetizzati, questi predatori, che raggiungono la lunghezza di circa 35 cm, raramente scappano se disturbati. Al contrario, erigono i raggi delle pinne dorsali che sono talmente robusti da perforare anche scarpe con suola di gomma.

Restiamo in Australia con la cubomedusa, così chiamata per la sua forma. Essa, detta anche “vespa di mare”, ha un veleno letale per l’uomo. In particolare, alcune specie, dette meduse Irukandji, provocano sintomi che vanno sotto il nome di “sindrome di Irukandji”, dal nome della popolazione che vive lungo le coste a nord di Cairns, nell’Australia orientale.  I sintomi, che si manifestano in un lasso di tempo compreso tra cinque minuti e due ore, consistono in crampi, forte dolore generalizzato a schiena, torace e addome, sudorazione, emicrania, ipertensione e tachicardia. Diverse ore dopo la puntura, può insorgere edema polmonare con grave danno cardiaco. Dal 2007 per trattare i sintomi si usa il solfato di magnesio; tuttavia, spesso è necessario il ricovero ospedaliero. La loro pericolosità è indicata da cartelli posizionati lungo la costa ed è divenuta soggetto di film, videogiochi e romanzi, in alcuni dei quali il veleno rappresenta l’arma del delitto.

Conus

Conus

Spostandoci in località balneari equatoriali e tropicali, i pericoli per i bagnanti e i subacquei non sono rappresentati solo dai temuti squali. Mete preferite, soprattutto dagli amanti della biodiversità marina, sono le scogliere coralline che, a dispetto della varietà di colori e di forme, nascondono molti pericoli. Pensiamo al “corallo di fuoco” (Millepora dichotoma, Forskål, 1775), molto comune negli oceani Indiano e Pacifico, così chiamato perché provoca vere e proprie ustioni. È un organismo coloniale con ramificazioni che raggiungono anche il metro di altezza. I singoli individui, i polipi, sono dotati di nematocisti e, come le meduse, causano ustioni da contatto. Il veleno di questo corallo ha un’azione neurotossica che può provocare disorientamento, rappresentando pertanto un grande rischio per coloro che stanno effettuando immersioni con le bombole, i quali potrebbero non essere in grado di eseguire correttamente le manovre di risalita. Le cicatrici delle ustioni sono permanenti.

Anche la puntura di alcuni molluschi gasteropodi può essere letale per l’uomo. È questo il caso delle specie del genere Conus (Linnaeus, 1758), quasi tutte presenti nelle acque tropicali dell’Atlantico e dell’Indo Pacifico e molto ricercate dai collezionisti. Questi molluschi, tramite una proboscide estroflessibile, iniettano il veleno che contiene delle neurotossine, le quali bloccano i recettori dei neurotrasmettitori, con conseguente paralisi. Essa è generalmente reversibile, ma talvolta ha provocato decessi. Infatti, quando il veleno entrato in circolo raggiunge il diaframma, cominciano le difficoltà respiratorie poiché i polmoni non si contraggono ed espandono più. Pertanto, può essere necessario ricorrere alla ventilazione meccanica. Nei casi più gravi, può sopravvenire la morte per arresto cardiaco.

Ciò nonostante, i neuroscienziati sono molto interessati alle caratteristiche del veleno delle specie del genere Conus, la cui composizione varia da specie a specie. Alcune “conotossine” hanno aspetti interessanti in campo terapeutico, in quanto potrebbero servire nella cura dell’Aids e del cancro, mentre altre potrebbero essere utili nei casi di emorragie cerebrali, morbo di Parkinson e Alzheimer, incontinenza urinaria e aritmia cardiaca. In particolare, la versione sintetica della conotossina presente nel veleno di Pionoconus magus (Linnaeus, 1758) è il principio attivo dell’analgesico Ziconotide, 10.000 volte più potente della morfina, ma con meno effetti collaterali.

Ma non finisce qui. Nel veleno di alcune specie della famiglia dei Conidi, è presente insulina, con la quale le prede vengono stordite. Infatti, elevate concentrazioni di insulina causano la diminuzione del glucosio, creando seri problemi al cervello e al sistema nervoso, rallentando quindi i movimenti delle prede e facilitandone la cattura. I ricercatori del Walter and Eliza Hall Institute of Medical Research di Melbourne hanno scoperto che questa proteina lavora molto più velocemente dell’insulina umana, pertanto, hanno messo a punto nuovi farmaci per il trattamento del diabete.

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