Non ci rubano il lavoro
Il progresso tecnologico ha comportato notevoli miglioramenti nelle nostre condizioni di vita, ma anche un diffuso timore della perdita di occupazione, a causa della sempre maggiore automazione di molte attività. Abbiamo affrontato l'argomento del neo-luddismo con Daniele Archibugi dell'Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Cnr
Da sempre l'uomo coltiva il timore che una macchina possa sostituirlo sul lavoro, liberandolo da un peso ma sottraendogli anche l'occupazione. Rispetto alle preoccupazioni, però, l'innovazione ha vinto sempre grazie ai suoi vantaggi. Anche se le prime hanno avuto fasi di grande enfasi come durante il luddismo, il movimento operaio che in Gran Bretagna, nel XIX secolo, reagì violentemente all'introduzione delle macchine nell'industria.
“Provate a cercare una piazza, una strada, una biblioteca o un circolo culturale intestato a Ned Ludd, il famoso operaio che prese a martellate un telaio, sostenendo che le nuove tecnologie erano nocive ai lavoratori”, commenta Daniele Archibugi, dirigente dell'Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali (Irpps) del Cnr. “Io sono riuscito a trovare solamente un pub a Nottingham. Sì, certo, ha dato origine al movimento dei luddisti, che spesso riemergono nei periodi di transizione da un sistema tecno-economico all'altro. Ma oggi nessuno lo celebra. Mentre gli inventori e gli innovatori - da Leonardo da Vinci a Thomas Edison, da Galileo a Bill Gates - sono festeggiati e riveriti. Che cosa ci dice questa disparità di trattamento? Rivela che la storia è, nel bene e nel male, scritta dai vincitori, e che coloro che si sono opposti al cambiamento sono stati trascurati. Il che non vuol dire che non avessero ottime ragioni dalla loro parte, ma piuttosto che i problemi da loro sollevati non potevano essere risolti tramite l'azzeramento del cambiamento tecnico e sociale”.
Arginare la strada del progresso non è la soluzione. Nel rapporto The Future of Jobs 2020, il World Economic Forum (Wef) stima che, entro il 2025, nuove suddivisioni nelle mansioni lavorative tra uomini e macchine potrebbero portare alla perdita di 85 milioni di posti di lavoro, ma anche alla creazione di 97 milioni di nuovi posti. “Se i telai, i computer, i robot generano disoccupazione, diventa essenziale che i vantaggi in termini di produttività siano utilizzati socialmente, creando nuovi posti di lavoro capaci di soddisfare i bisogni umani. E, allo stesso tempo, riducendo la giornata di lavoro”, dichiara il ricercatore del Cnr-Irpps. “Durante la Rivoluzione del 1848, furono creati gli Ateliers Nationaux proprio per dare lavoro a tutti. Nel 1938, Lev Trotski suggerì che, se le imprese riducevano la propria occupazione a causa del cambiamento tecnologico, bisognava mantenere l'occupazione invariata ma diminuire il numero di ore lavorate da ciascuno. Erano due modi diversi per dare una risposta alla stessa domanda. Se ci sono innovazioni che consentono di produrre la stessa quantità di lavoro con meno input, ce ne dobbiamo solo rallegrare. Ma non si capisce perché questo debba significare che qualcuno debba andare incontro alla disoccupazione. Lavorare meno o produrre di più sono due semplici soluzioni capaci di distribuire i benefici del progresso tra tutta la popolazione”.
I robot non sono dunque nemici dell'uomo, bensì suoi alleati, e tanti sono gli esempi di azione sinergica tra mano umana e arto robotico, tante le potenzialità di questi colleghi 2.0. “In linea di principio, i robot possono fare di tutto: possono diventare soldati invincibili, amanti focosi, psicoanalisti perspicaci. Lo abbiamo visto in tanti film e romanzi. Perciò si tratta di reinventare il lavoro umano, adattandolo a un contesto diverso. Credo che il concetto stesso di lavoro si modificherà”, aggiunge Archibugi. “Ci sono già casi in cui l'interazione tra umani e macchine genera grandi risultati. Pensiamo, ad esempio, a tutte le nuove macchine sofisticate che si usano in chirurgia e che rendono gli interventi più sicuri. Ci sono già sei robot su Marte e quelli certamente non rubano il lavoro a nessuno, anzi creano un sacco di posti di lavoro per ingegneri e astrofisici sulla Terra. Stiamo aspettando che si generino nuovi robot che possano rimpiazzare gli esseri umani, soprattutto nei lavori più faticosi e alienanti”.
Il percorso per l'inserimento di robot nel mondo del lavoro non è però sempre lineare. Ci sono esperimenti poco fortunati, come il caso dell'hotel giapponese Henn na: l'albergo ha impiegato per alcuni anni decine e decine di automi per svolgere diverse attività - facchino, concierge, assistente in camera -, ma le difficoltà riscontrate nel rapporto con i clienti, insieme al mancato aggiornamento dei robot, hanno portato al licenziamento di circa duecento automi. In ogni caso, la strada del progresso rimane aperta. Il timore che il cambiamento porta con sé è comprensibile, ma l'attenzione va posta sulle nuove prospettive occupazionali e sulla necessità di condurre tutta la popolazione a godere dei benefici dell'innovazione.
In base a quanto riportato dal Massachusetts Institute of Technology (Mit) in The Work of the Future: Building Better Jobs in an Age of Intelligent Machines, più del 60% dei lavori esistenti nel 2018 sono nati dopo il 1940. Questo aiuta a immaginare i mutamenti a cui andrà incontro, ancora una volta, il mondo del lavoro. L'apertura di sempre più settori a mansioni svolte da robot porterà uomini e donne a specializzarsi in nuovi campi, con la conseguente nascita di nuove figure professionali. “Questo è ciò che sta già succedendo”, conclude il ricercatore. “Ma ancora una volta l'organizzazione sociale è molto indietro rispetto al cambiamento tecnologico: non siamo ancora capaci di gestire adeguatamente le opportunità. Ad esempio, siamo in grande ritardo per quanto riguarda l'educazione e la formazione professionale. Chi si sta occupando realmente di far sì che gli anziani o le persone più fragili godano effettivamente dei benefici della tecnologia? Oggi si moltiplicano le app che possono essere usate dai cellulari, ma ben pochi si rendono conto, per esempio, che chi è presbite ha bisogno di uno schermo più grande. Il dramma non è il cambiamento tecnologico, ma l'incapacità di gestirlo nell'interesse di tutti, a cominciare dai ceti più deboli”.
Fonte: Daniele Archibugi, Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali, Roma , email daniele.archibugi@cnr.it -