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Mar della plastica invade le acque mondiali

Mar della plastica invade le acque mondiali
di Luisa De Biagi

Agglomerati di frammenti abbandonati nell'ambiente e nel mare rischiano di alterare in modo permanente il funzionamento degli ecosistemi. Sono un fenomeno pervasivo e diffuso globalmente, come evidenzia Stefano Aliani dell'Istituto di scienze marine del Cnr

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“Seconda onda a destra questo è il cammino, e poi in fondo fino al retino…” potrebbe essere una  cover ambientalista del famoso brano di Bennato “L'isola che non c'è”, non più il sogno utopistico descritto dal cantautore, ma un agglomerato di  frammenti di plastica più o meno grandi abbandonati nell'ambiente e nel mare. Un fenomeno globale, pervasivo e diffuso, che ha il potenziale di alterare in modo permanente il funzionamento degli ecosistemi.

“Persino le aree più remote del Pianeta non sono libere da questa piaga. Una recente spedizione attorno all'Antartide effettuata dall'Istituto di scienze marine (Ismar) del Cnr in collaborazione con il Swiss Polar Institute ha scoperto la presenza di macro e microplastiche galleggianti sull'Oceano meridionale e perfino dove hanno nidificato i pinguini”, spiega Stefano Aliani del Cnr-Ismar. “Per molto tempo è stata una presenza silenziosa e apparentemente innocua in un oceano percepito come immenso e imperturbabile. Per esempio nel 1974 Fergusson, allora membro del Council of the British Plastics Federation e Fellow del Plastics Institute, sosteneva che la plastica fosse materiale inerte che non avrebbe causato problemi all'ambiente ma solo al paesaggio, rendendolo esteticamente sgradevole. Questo approccio poteva essere comprensibile nel 1960, quando la produzione mondiale di polimeri era di circa 2 milioni di tonnellate all'anno e non c'erano indicazioni che facessero pensare che sarebbe stato diverso in futuro, ma oggi non è più così. La sola produzione del 2019 è stata di 368 milioni di tonnellate, di cui si stima che tra 60 e 90 milioni di tonnellate diventano rifiuti. In uno scenario senza interventi legislativi o di mitigazione, la produzione di rifiuti nel 2060 è stimata essere da 155 a 265 milioni di tonnellate all'anno. Sono quantità troppo grandi per pensare che l'oceano immenso e imperturbabile possa assorbirla senza conseguenze”.

In realtà già dagli anni '70 il problema era noto alla comunità scientifica: quando nel 1972 alcuni ricercatori del Woods Hole Oceanographic Institution in Massachusetts segnalarono la presenza di plastica di dimensioni minori di mezzo centimetro nei loro campioni di plancton dal Mar dei Sargassi, era ormai chiaro che la microplastica fosse divenuta un “inquilino abusivo” degli oceani. “Nel 1988 Robert Day, David Shaw e Steven Ignell presentarono alla II Conferenza mondiale sul detrito marino una dettagliata relazione sulla distribuzione e sulle caratteristiche della plastica galleggiante nel Nord Pacifico. Trovarono molta plastica in due aree, una di fronte al Giappone e l'altra verso l'America”, continua il ricercatore del Cnr-Ismar. “Le zone più vicine al Polo avevano concentrazioni molto minori. Questi autori ipotizzarono correttamente che vento e correnti fossero la causa e che per la natura della circolazione oceanica ci sarebbe stato un accumulo notevole al centro del Vortice centrale del Pacifico negli anni a venire”.

La maggior parte della gente era all'oscuro del fenomeno ma un uomo ha avuto il merito di portarlo all'attenzione del grande pubblico e dei media come problema ambientale: lo skipper Charles Moore. “Nel 1997 Moore, durante una traversata in barca a vela dalla California alle Hawaii, nella zona delle calme equatoriali e lontano da ogni costa, aveva trovato un impressionante accumulo di rifiuti. Tornato a casa decise che doveva fare qualcosa, partecipando anche a programmi televisivi molto popolari in America come 'The Oprah Show' e 'the Late Show' di David Letterman”, aggiunge Aliani. “La sua segnalazione ha generato un grande impatto mediatico. I termini 'vortice di spazzatura', 'la più grande discarica al mondo' o 'la più grande massa di spazzatura galleggiante' vennero ampiamente usati negli articoli giornalistici. L'oceanografo di Seattle Curtis Ebbesmeyer, famoso per aver tracciato il trasporto delle paperelle-giocattolo perse da una nave, suggerì che Moore avesse trovato un 'Garbage Patch' all'interno del Gyre Subtropicale del Nord Atlantico”.

I gyres subtropicali sono sistemi di correnti oceaniche circolari, enormi vortici generati dal vento che si trovano normalmente in tutti gli oceani. “Il termine è oggi ampiamente usato per tutti gli accumuli di plastica collegati a gyres subtropicali. La dimensione del gyre subtropicale è immensa, praticamente attraversa tutto il Nord Pacifico; le zone di accumulo sono state trovate ai margini”, precisa l'esperto. “Sebbene queste aree potenzialmente in grado di generare l'accumulo siano quasi delle dimensioni del Texas o di altri grandi stati,  si è generata tuttavia parecchia disinformazione, perché alcuni articoli divulgativi portano a pensare che sia la massa di plastica a essere grande come il Texas. In realtà, all'interno dell'area il fenomeno è piuttosto dinamico e i punti di accumulo, molto più piccoli, si spostano continuamente all'interno”.

Siamo quindi entrati nell'insidioso territorio delle 'fake news e linguaggi della comunicazione scientifica': il Garbage Patch non è noto al grande pubblico a seguito di studi scientifici che lo hanno descritto e che ne studiano i meccanismi, ma perché è stato presentato da alcuni media come un'immensa porzione di Oceano solidificata dalla plastica. “Addirittura, in alcuni articoli si dice che tutto il Subtropical Gyre è un Garbage Patch e che esiste un fantomatico continente di plastica tra America e Asia. Da qui a creare il concetto di isola di plastica il passo è breve”, chiarisce il ricercatore. “Il termine è stato usato la prima volta nel titolo di un articolo dalla giornalista americana Lindsey Hoshaw, di ritorno da un viaggio sulla rotta di Moore. Una parte della stampa italiana ha scelto di usare il termine 'isola di plastica' al posto del più corretto 'Garbage Patch', la cui traduzione in italiano è toppa o rammendo. Se esistesse veramente un'isola solida sarebbe visibile da satellite. Studi recenti effettuati dal Cnr-Ismar per conto dell'Agenzia spaziale europea, che mirano a definire gli standard per monitorare la plastica da satellite, hanno permesso di individuare nel Mediterraneo accumuli locali anche delle dimensioni di alcuni metri (Topouzelis et al. 2021), ma in nessuna delle immagini satellitari è stato possibile trovare la cosiddetta isola di plastica. Anche chi è stato nella zona del Garbage Patch dice che non si vede niente, nessuna massa galleggiante o qualcosa di solido, a parte alcuni sporadici oggetti che avevano impressionato Moore”.

Ma il fatto che non sia un'isola e che non ci possiamo camminare sopra non elimina il problema. “La plastica nel Garbage Patch si mescola continuamente e si muove per il vento e le correnti. Questo implica che non c'è uno strato superficiale dove si accumula in modo permanente: la plastica si trova in superficie, lungo la colonna d'acqua e giù fino al fondo dell'Oceano. Una massa enorme che a ragione può essere considerata la più grande discarica del Pianeta. Inoltre, non si tratta solo di pezzi di plastica visibili, spesso infatti sono frammenti microscopici, risultato della frammentazione di oggetti più grandi dovuta al sole, al sale, alle onde. Malgrado la presenza di questa enorme quantità, è teoricamente possibile attraversare il Garbage Patch senza vedere alcun oggetto di plastica”, conclude Aliani. “Magari il giorno seguente si possono vedere gli oggetti galleggianti che verranno col tempo degradati nella microplastica invisibile. La maggior parte degli oggetti visibili è materiale da pesca perduto. In una recente campagna oceanografica promossa dalla Scripps Institution of Oceanography di S. Diego, durante 19 giorni di campionamento nel Garbage Patch in tutte le 126 retinate effettuate è stata trovata plastica. Miriam Goldstein, che ha seguito il campionamento, riporta che spesso la bottiglia utilizzata per contenere il campione sembrava una di quelle palle di vetro con dentro la neve finta che si vendono come souvenir, una massa opaca per la presenza di microplastica sospesa. Si tratta pertanto di una 'zuppa di plastica' più che di un'isola. E questo non è normale e non fa ben sperare, soprattutto considerato che troviamo zuppe di plastica in diverse parti del mondo tra cui gli altri gyres dell'oceano e il Mediterraneo”.

Fonte: Stefano Aliani, Istituto di scienze marine, email stefano.aliani@sp.ismar.cnr.it

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