Pandemie, un passato che si fa presente
Il Coronavirus è solo l'ultima tra le patologie definibili con questo termine. Molte altre malattie comparse in tempi più o meno lontani ne presentavano infatti la caratteristica fondamentale: essere determinate da un agente infettivo originato in specie diverse da quella umana con cui non abbiamo mai avuto un contatto. È stato così per la peste nera e per la spagnola, ma anche per diverse patologie dei decenni scorsi. Ne parliamo con Antonio Mastino, dell'Istituto di farmacologia traslazionale del Cnr
Fino a prima della comparsa del Coronavirus, coltivavamo l'illusione di essere al riparo da epidemie come quelle che hanno funestato il Pianeta in passato e, proprio per fugare questo rischio, si era ingaggiata una battaglia culturale e legale contro i “no vax” che rischiavano di minare l'effetto gregge che ci protegge da insidiose patologie; i vaccini, con i farmaci e le norme di igiene sono i passi avanti più importanti compiuti dalla ricerca scientifica e dal progresso socio-sanitario. Al massimo, pensavamo, emergenze infettive come la Sars o l'Ebola in Africa possono manifestarsi in aree da questo punto di vista meno sviluppate del Pianeta. Anche se gli spostamenti di merci e di persone sempre più intensi su tutto il Pianeta, la crescita dei contatti tra popolazioni lontane dovevano avvertirci del conseguente maggior pericolo di possibili contagi.
A minare definitivamente la nostra presunzione di superiorità e immunità è stato l'arrivo della Covid-19, che sta provocando numeri elevati di contagiati e decessi in ogni parte del mondo, tanto che l'Organizzazione mondiale della sanità, l'Agenzia dell'Onu con il compito di sovrintendere sulla salute della popolazione mondiale, ha ufficialmente dichiarato l'infezione da coronavirus Sars-CoV-2 come “pandemia”. Il termine dal punto di vista scientifico ha un significato preciso: “Le insorgenze epidemiche ad alto potenziale di rapida diffusione e contagio, che colpiscono la popolazione umana in aree geografiche diffuse in tutto il mondo, anche se nelle diverse zone differiscono per i segmenti di popolazione più colpiti, per il grado di gravità della malattia, per la velocità di diffusione geografica, per la quantità di ondate pandemiche, per la distribuzione territoriale e il numero di decessi causati”, spiega Antonio Mastino, ricercatore associato dell'Istituto di farmacologia traslazionale (Ift) del Cnr e professore di Microbiologia generale all'Università di Messina. “A distinguere pandemia ed epidemia è l'estensione del contagio, non il numero di vittime. La Sars nel 2002-2004, per esempio, ha determinato una quantità limitata di decessi, distribuiti però in tutti i continenti. Diversamente, l'Ebola ha prodotto molti più morti, confinati però in Africa centrale e occidentale. Esistono inoltre epidemie stagionali quali quelle influenzali, che colpiscono in vari Paesi, provocando anche molti decessi, ma affliggono solo una percentuale della popolazione. A contraddistinguere la pandemia è insomma l'essere determinata da un agente infettivo con cui la popolazione umana non ha avuto precedenti contatti, verso cui quindi non è protetta dall'immunità”.
Sulla base dei dati acquisiti da quando si affronta il problema scientificamente, in pratica abbiamo attribuito l'origine delle pandemie al fenomeno dello “spillover”: “Il cosiddetto salto di specie, ossia l'evento per cui un agente infettivo entra per la prima volta in contatto con l'essere umano dopo mutazioni genetiche che gli consentono di variare il suo spettro d'ospite, la sua capacità di aggredire una sola specie o un numero più elevato di specie ospiti, quindi sia quella umana che altre”, continua il ricercatore. “In questo senso, la Covid-19 è paragonabile alla Peste nera che si è diffusa nel XIV secolo in gran parte dell'Asia e in tutta Europa, dove fece ingresso nel 1347 dal porto di Messina: vi avevano attraccato navi genovesi provenienti dal Bosforo e il suo agente infettivo è stato probabilmente veicolato dai ratti. Secondo stime accreditate, le vittime nel continente sono state circa un terzo della popolazione dell'epoca ed è durata circa cinque anni. Da quanto sappiamo, un focolaio del batterio Yersinia pestis sviluppato in Asia ha trovato condizioni climatiche e biologiche ideali per impiantarsi stabilmente nelle colonie di roditori che popolavano la regione, dove passavano le carovane della Via della Seta. Queste hanno favorito la diffusione verso Occidente, mentre al passaggio all'uomo e alla recircolazione tra i roditori pare abbiano contribuito anche le pulci, quali ospiti intermedi”. Nel caso del Coronavirus, invece, il sospetto colpevole è il pipistrello, come sappiamo.
Cronologicamente più vicina a noi la pandemia influenzale del 1918 conosciuta come Spagnola, anche se non è nel Paese iberico che ha avuto origine, la definizione deriva dal fatto che i primi a parlarne furono i giornali spagnoli, non sottoposti alla censura a causa della guerra in corso. Censura che invece vigeva negli altri Paesi, che nascosero a lungo l'esistenza di una pandemia. La Spagnola ha provocato nel mondo circa 50 milioni di morti, soprattutto tra bambini sotto i 5 anni, persone tra i 15 e i 34 anni e over 65. “A causarla è stato il virus influenzale A H1N1, con geni di origine aviaria”, precisa Mastino. “In assenza di vaccini e di antibiotici, per cercare di controllarla ci si è limitati a interventi non farmacologici quali isolamento, quarantena, igiene personale, disinfettanti e limitazioni delle riunioni pubbliche; provvedimenti peraltro applicati in modo non uniforme nei vari Paesi. Bisogna ricordare, inoltre, che era in corso la Prima Guerra mondiale e i movimenti delle truppe determinavano contatti stretti tra le persone. Inoltre, gli spazi abitativi erano sovraffollati, gran parte del personale sanitario era impiegato al fronte, la tecnologia medica e farmacologica ancora limitata: non esistevano test diagnostici e non era nota neppure l'esistenza del virus influenzale”.
Solo molti anni dopo si è presentata una nuova influenza pandemica di origine aviaria, l'Asiatica. “Definita così perché si è manifestata per la prima volta a Singapore, nel febbraio 1957; poi ad aprile a Hong Kong; quindi, in estate, nelle città costiere degli Stati Uniti. In questo caso, i decessi sono stati 1,1 milioni in tutto il mondo”, sottolinea il ricercatore del Cnr-Ift. Dopo poco più di dieci anni si è registrato un nuovo virus influenzale che conteneva due geni di un virus dell'influenza aviaria. “Individuata per la prima volta negli Usa a settembre del 1968, ha provocato un milione di morti nel mondo, soprattutto fra persone sopra i 65 anni”. Letale è stato anche il virus dell'influenza A (H1N1), identificato per la prima volta nella primavera del 2009 negli Stati Uniti, da dove si è propagato in tutto il mondo. “Questo nuovo virus conteneva una combinazione unica di geni influenzali non identificati prima in animali o persone, ed era molto diverso dai precedenti virus H1N1 ancora circolanti: pochi giovani ne erano immuni, mentre quasi un terzo della popolazione over 60 era protetta da anticorpi contro di esso. Nel primo anno in cui è circolata, in tutto il mondo sono morte tra le 150mila e le 550mila persone e ancora oggi continua a circolare come virus influenzale stagionale, causando malattie, ospedalizzazioni e decessi”, precisa l'esperto.
Ce n'è abbastanza per capire che non viviamo affatto in un'epoca immune in assoluto da rischi pandemici. Del tutto diverse le caratteristiche e la diffusione di quella causata dal virus dell'immunodeficienza HIV-1, nota come Aids. “All'origine della sua diffusione nelle popolazioni umane negli ultimi cento anni c'è il salto di specie tra il Siv (virus dell'immunodeficienza della scimmia) degli scimpanzé e dei gorilla e l'uomo. Due popolazioni delle sottospecie Pan trogloditi e Gorilla gorilla, endemiche in Camerun, sono state identificate come origini delle trasmissioni agli esseri umani”, conclude Mastino. “Rilevato per la prima volta negli Stati Uniti d'America e in Europa nei primi anni '80, l'HIV era in realtà presente nella Repubblica democratica del Congo già alla fine degli anni '50, e probabilmente nella fase pre-epidemica si era diffuso da Kinshasa a Brazzaville al Congo sin dalla fine degli anni '30, con una lenta diffusione fino circa al 1960. Quindi, a causa dei cambiamenti sociali e della nascita delle nuove reti di trasporto, si è trasferito ai Caraibi, in America e nel resto del mondo, con un reingresso anche nel continente africano. Sulla base degli ultimi dati diffusi dall'Oms, attualmente questo virus infetta circa 38 milioni di persone”.
Fonte: Antonio Mastino, Istituto di farmacologia traslazionale, e-mail: antonio.mastino@ift.cnr.it