Editoriale

La teoria del relativismo

Quasi a ogni numero dell'Almanacco della scienza ci troviamo, per dovere di cronaca, a stilare l'elenco delle querelle insorte nelle settimane precedenti sul fronte della comunicazione scientifica. Quest'ultima uscita non fa eccezione: basta ricordare l'aggressiva reazione suscitata da un articolo della Stampa in cui Silvia Bencivelli confutava la teoria delle cosiddette scie chimiche (secondo cui le strisce bianche lasciate dagli aerei sarebbero dei tentativi di contaminazione del pianeta) e quella, di seg
di Marco Ferrazzoli

Come provare a ricomporre la frattura tra ricercatori e opinione pubblica? Come rendere la scienza un laboratorio di sintesi in senso hegeliano? Come, cioè, far sì che la ricerca scientifica produca un avanzamento della conoscenza utile al progresso culturale e materiale dell'umanità?

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Quasi a ogni numero dell'Almanacco della scienza ci troviamo, per dovere di cronaca, a stilare l'elenco delle querelle insorte nelle settimane precedenti sul fronte della comunicazione scientifica. Quest'ultima uscita non fa eccezione: basta ricordare l'aggressiva reazione suscitata da un articolo della Stampa in cui Silvia Bencivelli confutava la teoria delle cosiddette scie chimiche (secondo cui le strisce bianche lasciate dagli aerei sarebbero dei tentativi di contaminazione del pianeta) e quella, di segno opposto e di analoga virulenza, che ha invece fatto seguito a un articolo di Jeremy Rifkin contro la sperimentazione animale, ospitato sul Corriere della sera.

Che tutto sia relativo a opinioni, appartenenze culturali, epoche storiche è ovvio. Che la verità vada mediata in termini 'asintotici' di maggiore probabilità e autorevolezza lo sappiamo. Ma la sua dissoluzione come categoria è uno dei rischi del nostro tempo, che insegue il 'parere', l'opinione, la disinformazione suffragata dal consenso. L'altro rischio, speculare, è che in questo scenario i detentori delle competenze rifiutino il dialogo, rinchiudendosi nella turris eburnea ma sempre più angusta del sapere.

Come ricomporre questa frattura? Come rendere la scienza sia un laboratorio anche sociale, di sintesi in senso hegeliano? Come far sì che la ricerca produca un avanzamento della conoscenza condiviso e quindi utile al progresso culturale e materiale?

Sono domande a cui non possiamo certo fornire qui una risposta definitiva ma su cui è indispensabile riflettere. Conviene, intanto, dire ciò che non possiamo né dobbiamo fare. La prima cosa è banalizzare: la fiction su Adriano Olivetti andata in onda nei giorni scorsi su Rai Uno, per esempio, è un'operazione apprezzabile come tentativo di far conoscere al grande pubblico un grande innovatore, ma non dobbiamo illuderci che il percorso tracciato dall'imprenditore e già smarrito dopo la sua scomparsa possa essere ripreso sic et simpliciter oggi, in un contesto sovvertito dalla globalizzazione.

La realtà di cui tenere conto è complessa. Sull'Espresso Enrico Moretti, economista docente negli Usa, commentava l'inshoring, cioè il ritorno di alcune aziende che avevano delocalizzato: fenomeno positivo ma limitato a imprese a scarsa innovazione, data l'estrema difficoltà di convincere le Pmi a investire in ricerca e sviluppo. Altrettanto controvertibile, evidenziava di recente il presidente del Consiglio nazionale delle ricerche, il dato che pone i nostri ricercatori al primo posto italiano e al quarto europeo tra i percettori di finanziamenti dell'Ue per progetti approvati. “Un risultato importante che attesta la capacità dei nostri ricercatori”, ha detto Luigi Nicolais, ma “la frammentazione eccessiva delle proposte è il segno che non riusciamo a fare squadra".

Un altro errore è dipingere la ricerca come un unicum, anziché cercare di farne comprendere la composizione e ammetterne anche le contraddizioni. In un incontro organizzato dall'Aspen Institute al Cern si è contestato il meccanismo 'top down' degli attuali finanziamenti, in favore di uno 'bottom up' che incentivi la ricerca applicativa. La posizione diametralmente opposta a quella sostenuta nel recente saggio di Nuccio Ordine, 'L'utilità dell'inutile' (Bompiani). Chi lavora nel comparto conosce bene la complessità di questi aspetti, che bisogna sforzarsi di rappresentare anche ai non addetti.