Faccia a faccia

“Non ci sarà un’altra 'meglio gioventù’"

giordana
di Silvia Mattoni

Sin dagli esordi affronta temi di grande rilievo come violenza, terrorismo e mafia. Spesso ambientati negli anni Settanta, i suoi film raccontano e denunciano la storia complessa di quel decennio attraverso il suo vissuto. Ma l'elemento che caratterizza le opere di Marco Tullio Giordana, è sempre l'accurata documentazione degli eventi storici e dei fatti di cronaca

Pubblicato il

 

Marco Tullio Giordana inizia ad accostarsi al cinema collaborando con Roberto Faenza. Esordisce con 'Maledetti, vi amerò', Pardo d'oro al Festival di Locarno. Dopo 'La caduta degli angeli ribelli’, 'Appuntamento a Liverpool’, 'Notti e nebbie’, inizia la sua esperienza sul piccolo schermo, che culmina nel 2003 con 'La meglio gioventù', grande successo con cui vince la sezione 'Un certain regard’ al Festival di Cannes. Subito dopo è la volta di 'Quando sei nato non puoi nasconderti' e 'Sangue pazzo'. Ma è soprattutto con 'Pasolini un delitto italiano’, 'I cento passi’ (sulla morte di Peppino Impastato) e 'Romanzo di una strage’ (ricostruzione dell'attentato di piazza Fontana) che il regista si conferma, ottenendo la medaglia del Senato della Repubblica alla Mostra del cinema di Venezia e il David di Donatello.

Come si è avvicinato al cinema?

Da ragazzo volevo dipingere, il mio primo amore è stata la pittura. Poi, dopo aver visto a Parigi una mostra sconvolgente di Francis Bacon, abbandonai l'idea. Fu allora che cominciò il tarlo del cinema: mi piacevano quello americano, inglese, i film della nouvelle vague, un po’ tutto. Ero uno spettatore onnivoro.

E a quale autore si è ispirato di più?

Tantissimi, impossibile citarli tutti. Forse quello che mi ha più segnato è stato però Ingmar Bergman. Avevo visto da ragazzino i suoi film in televisione, mi avevano sempre turbato. Un altro autore per me molto importante è stato Rainer Werner Fassbinder. Oggi non lo ricorda più nessuno.

Nei suoi film svela la verità…

Non mi sento migliore dei miei personaggi, non ho nessun atteggiamento di superiorità. Non voglio approfittare del vantaggio di sapere in anticipo come va a finire una storia, cerco di scoprirlo man mano che si svolge. Proclamare verità indiscutibili mi sembra un atto di violenza. Se devo mandare un messaggio – diceva Hitchcock – vado alla posta. I 'messaggi’ poi si dimenticano subito, non creano alcuno stimolo a documentarsi, ad andare avanti da soli.

Quali strumenti ha usato per la ricostruzione storica dei suoi film-inchiesta?

Sono il frutto di una ricerca molto accurata che, insieme con i miei sceneggiatori, effettuo per ogni film. In particolare se il tema è scabroso o controverso, se le questioni sono ancora aperte, come nei casi di Pasolini, Impastato o Piazza Fontana. Cerco di scomporre i problemi, di affrontarli uno per volta, portando in luce tutti i punti di vista e le ragioni di ciascuno, anche le più perverse. Un po’ come ha sempre fatto Francesco Rosi, che considero il maestro di questo genere.

Ha mai pensato di continuare la storia de 'La meglio gioventù’?

Ma no… Quel film fu un’avventura straordinaria, con un incredibile esito commerciale in tutto il mondo, una fortuna critica, una gioia degli spettatori, che è impossibile replicare. Un cineasta deve essere felice di aver vissuto un’esperienza del genere e tenerla calda nel suo cuore, ricordando con riconoscenza tutti i suoi collaboratori. La forza del film fu proprio non aver seguito alcuna ricetta, la sua totale sincerità. Già l’idea della replica contiene invece qualcosa di artefatto, di furbo. Lo spettatore non lo perdonerebbe. Certo sarebbe interessante raccontare che cos’è oggi 'la meglio gioventù’, dove si nasconde, cosa fa, come vive. Ma credo che questo film lo farebbe meglio un regista coetaneo ai suoi personaggi.

E di raccontare la storia di uno scienziato?

È un mondo che mi affascina da sempre. Da ragazzo divoravo le biografie dei ricercatori, dal fisico statunitense Julius Robert Oppenheimer, con la sua crisi di coscienza per essere stato fra i realizzatori della prima bomba atomica, a Marie Curie. E i nostri Fermi, Caffè, Pontecorvo, Majorana… Sì, sarebbe bello, ma immagino anche la faccia che farebbero i produttori.

A quale dei suoi film è più legato?

A quello che verrà, al prossimo. Sto lavorando a un progetto che mi appassiona molto e che per la solita scaramanzia non vorrei dire finché non è sicuro.

Come vede il cinema oggi?

Senza confini nazionali. Certo la cultura specifica di ogni Paese ha un peso nei film, ma non credo sia l’elemento prevalente. Penso che l’immagine e il suono siano in grado di rompere le barriere linguistiche. A differenza della letteratura, nel cinema la lingua non è l’elemento fondamentale della comprensione.

Un’idea per riportare il pubblico al cinema?

Credo che la crisi, più che il cinema, riguardi le sue modalità di fruizione. Il pubblico ama molto i film ma purtroppo non vuole vederli nelle sale. Oggi ci sono un’infinità di modalità di fruizione: dall’IPad al telefonino, alla televisione, al computer… Noi cineasti non possiamo fare altro che adattarci a questi nuovi strumenti, cercare di comprenderne il più possibile i vantaggi. È una rivoluzione più violenta dell’avvento del sonoro. Di una cosa però sono convinto: i film possono essere visti ovunque ma se non ci si preoccupa di tutelarne la proprietà intellettuale, prima o poi finiranno. Se mai dovesse succedere sarà per l’avidità di qualcuno, non certo perché la gente non vuole più vederli.