Dalla tutela dei beni culturali alla divulgazione scientifica: una ricerca multidisciplinare
Arte e scienza, spesso considerate erroneamente discipline antitetiche, sono, al contrario, sempre più spesso interconnesse nell’ambito della tutela e della valorizzazione dei beni culturali. Per comprendere le dinamiche di queste connessioni interdisciplinari abbiamo parlato con Cristiano Riminesi, Eva Pietroni e Bruno Fanini, ricercatori esperti di diagnostica, valorizzazione e tecnologie della comunicazione dell’Istituto di scienze del patrimonio culturale del Cnr
È sempre meno raro visitare un museo scientifico e trovarsi ad assistere ad una mostra d’arte contemporanea, oppure, al contrario, essere invitati all’inaugurazione di una mostra scientifica in un sito archeologico (come nel caso della mostra scientifica del Cnr Agorà. Scienza e matematica dal mediterraneo antico). E, in effetti, anche nella ricerca il connubio tra discipline umanistiche e quelle scientifiche ha mostrato in più occasioni di portare a risultati forieri di novità: a partire dalla scoperta di nuovi pigmenti, nuove attribuzioni di opere, fino alla rivelazione di nuovi dettagli delle opere che hanno portato a rileggere anche dipinti storici. Come quella del Ponte del Diavolo di Blera in un dipinto di William Turner (1828), conservato alla Tate Britain di Londra, notizia di poche settimane fa. È indubbio quindi che la diagnostica artistica sta assumendo un rilievo sempre maggiore e, a conferma di ciò abbiamo chiesto a Cristiano Riminesi, ingegnere elettronico e ricercatore dell’Istituto di scienze del patrimonio culturale (Ispc) del Cnr, di spiegarci in che modo le indagini diagnostiche possono aiutare la conservazione e la tutela dei beni culturali.
“Serve un’interazione multidisciplinare per guardare un manufatto secondo più prospettive per prendersene cura in modo efficace”, sostiene Riminesi - che da anni lavora fianco a fianco con architetti, geologi, chimici, biologi e restauratori -, raccontandoci lo sviluppo del progetto da poco concluso sul ciclo di affreschi della cappella Brancacci nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze. “La campagna di indagini che è stata svolta alla Cappella Brancacci, sugli affreschi di Masolino, Masaccio e Filippino Lippi è partita dal ritrovamento di piccolissimi frammenti degli affreschi sulla pavimentazione della Cappella”, spiega. In seguito alle indagini condotte con varie tecniche multiscala, dai laser scanner agli infrarossi, dalle tecniche di spettroscopia molecolare per immagini fino a tecniche riflettografiche in fibra ottica e ad analisi puntuale, gli studiosi hanno compreso quali aree degli affreschi avessero bisogno di interventi. “Queste tecniche non invasive ci hanno permesso di conoscere lo stato conservativo dell’affresco, ma anche ampliare le nostre conoscenze sul ciclo”, continua il ricercatore. “In questo modo si possono orientare i prelievi per analizzare più in profondità il materiale”. A seguito di queste indagini sono stati compresi i motivi del deterioramento o del parziale distacco degli intonaci, ma è stato possibile anche acquisire nuove conoscenze degli affreschi dal punto di vista materico, della tipologia di pigmenti utilizzati, della tecnica esecutiva e individuare anche dei protocolli per degli interventi che avessero il massimo rispetto dei materiali originali. “L’intervento diagnostico ha permesso infatti di trovare una malta adesiva che facendo aderire l’intonaco non ne aggravasse ulteriormente il peso”, conclude Riminesi.
I risultati che emergono in seguito a indagini chimiche e fisiche sui beni culturali consentono spesso una rilettura della storia e della storia dell’arte, ma rischiano di essere poco diffusi perché poco intellegibili al pubblico dei non addetti ai lavori. È qui che si inserisce, giocando un ruolo fondamentale, l’intreccio con ulteriori discipline come l’informatica, la scienza della comunicazione e le nuove tecnologie.
Eva Pietroni, ricercatrice del Cnr-Ispc, conservatrice dei beni culturali da anni attiva nella valorizzazione e digitalizzazione del patrimonio culturale ci ha raccontato come, nel laboratorio Digital Heritage Innovation dell’Istituto, si sperimenti l’uso di nuovi linguaggi per valorizzare i beni culturali. “L’attività del laboratorio che vede l’azione congiunta di un team fatto di archeologi, conservatori, storici dell’arte, ingegneri, informatici non si ferma solo alla ricostruzione del dato o all’analisi di un documento, ma si arricchisce con la comunicazione al pubblico”, spiega la ricercatrice.
L’Ispc ha molti progetti in essere dedicati alla sperimentazione di linguaggi e allo storytelling della scienza. Tra le attività fondamentali del Digital Heritage Innovation Lab (DhiLab) vi è infatti la realizzazione di ambienti digitali rivolti al pubblico di mostre e musei. Come nel progetto Codex 4D, che ha visto la ricercatrice partecipe nella digitalizzazione di alcuni manoscritti in 2d e 3d con l’obiettivo di svelare elementi invisibili anche nelle miniature come pentimenti o censure. “Tramite l’impiego della termografia attiva e delle indagini di imaging, siamo riusciti a rilevare anche frammenti di testo sepolti sotto la legatura”, spiega Pietroni. Queste tecniche di indagine permettono di arricchire le conoscenze sul manoscritto, scoprirne materiali pittorici e nuovi elementi compositivi che però senza la divulgazione resterebbero conoscenze poco o per nulla fruibili. “Per raccontare al pubblico quanto così scoperto, abbiamo realizzato una vetrina olografica: mediante l’olografia di un personaggio storyteller raccontiamo la storia del manufatto e permettiamo al pubblico di sfogliare il manoscritto virtualmente, grazie a un sensore interattivo di rilevamento del movimento della mano”, chiarisce l’esperta.
Le vetrine olografiche realizzate per il progetto Codex 4D sono state esposte alla Biblioteca Angelica di Roma e presentate di recente anche al Digital Heritage di Siena. Un esempio di come l’intreccio tra storia, diagnostica artistica e nuove tecnologie possa offrire un contributo significativo alla diffusione della conoscenza, consentendo a un target generico di comprendere contenuti scientifici spesso ostici.
Dello stesso parere è anche il ricercatore Bruno Fanini, informatico dello stesso Istituto e anche lui parte del gruppo di ricerca del DhiLab. Fanini, intreccia le sue competenze di informatica e grafica 3D interattiva a quelle di archeologi, architetti, ingegneri e conservatori del team, tanto da subirne, positivamente, le influenze, come mostra illustrandoci alcuni dei progetti in essere nell’Istituto, capaci di portare alla luce e diffondere al pubblico conoscenze recondite.
“Dietro le ‘vetrine olografiche’ descritte da Eva Pietroni, ma in molti dei progetti del laboratorio c’è uno strumento open source, creato da noi, che si chiama Aton”, spiega Fanini. “Si tratta di soluzioni liquide, in grado di adattarsi a molti device dotati di un web browser (dallo smartphone al pc, fino al visore immersivo) e, soprattutto, a target differenti. Grazie a questa soluzione open è così possibile incontrare virtualmente persone che sono a chilometri di distanza da noi ed esplorare un monumento storico completamente ricostruito o un’architettura mai edificata. Come vedere in realtà aumentata, in scala 1:1 la Venere in bikini attualmente conservata al Museo archeologico di Napoli, ed esplorarla da vicino attraverso differenti layer”.
L’assunto che muove le ricerche del laboratorio, nato come laboratorio per la realtà virtuale negli anni ’90, è che senza uno storytelling adeguatamente studiato non ci sarebbe una buona trasmissione dei contenuti e di conseguenza non si arriverebbe a una trasmissione della conoscenza. “Il dato digitale, ottenuto con tecniche di indagini innovative che consente una rilettura di un reperto o di un’opera d’arte, non sarebbe accessibile se, in altri termini, non si costruisse attorno a esso un’esperienza coinvolgente ed emozionale”, conclude Pietroni.
Comunicare l’invisibile quindi si può, se lo studio di un’opera, un libro o un monumento, diventa una congiunzione di saperi e competenze multidisciplinari in cui ogni disciplina gioca un ruolo precipuo e orientato alla diffusione della conoscenza.
Fonte: Cristiano Riminesi, Istituto di scienze del patrimonio culturale, cristiano.riminesi@cnr.it; Eva Pietroni, Istituto di scienze del patrimonio culturale, eva.pietroni@cnr.it; Bruno Fanini Istituto di scienze del patrimonio culturale, bruno.fanini@cnr.it