Vita di mare: Intrecci

Reti da pesca: strumenti utili o trappole mortali?

Rete da pesca
di Ester Cecere

Ester Cecere, già ricercatrice dell’Istituto di ricerca sulle acque, racconta l’origine di questi attrezzi, risalenti a tempi molto remoti - addirittura, sembra, al 27000 a.C. -, ne illustra i diversi tipi e spiega i danni che possono provocare agli ecosistemi marini, a causa della loro dispersione in acqua. Oggi però il problema è affrontato a livello mondiale grazie alla "Global Ghost Gear Initiative", che ne consente il recupero e, in alcuni casi, il riciclo

 

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Le reti da pesca sono uno strumento usato sin dalla preistoria per intrappolare gli animali acquatici. Le popolazioni del neolitico svilupparono tecniche e strategie per catturare i pesci. Quando i fiumi andavano in secca, vedendo che il pesce si radunava nelle pozze d’acqua più profonde, chiudevano tratti di fiume e raccoglievano poi il pesce con le mani. Ma la vera svolta arrivò con la realizzazione di reti che all’inizio consistevano di semplici rami attorcigliati e poi di fibre vegetali intrecciate.

Un’antica rete da pesca fu rinvenuta ad Antrea, in Finlandia, nel 1913, e risalirebbe addirittura all’8300 a.C. Tuttavia, essa non è assolutamente la rete più antica. Infatti, nel 27000 a.C., le reti venivano già usate in Corea. L’uso delle reti da pesca è documentato anche da incisioni rupestri, come quelle di Alta, nella Norvegia settentrionale, che risalgono a un periodo compreso tra il 4200 e il 500 a.C. Reti da pesca appaiono anche nei dipinti tombali egizi del 3000 a.C. 

I nativi americani, che pescavano sulle rive del fiume Columbia, tessevano delle reti realizzate con fibre di radici di abete o di erba selvatica; i pesi erano delle pietre, mentre i galleggianti erano dei bastoncini di cedro.

E tuttavia le reti da pesca, di cui esistono diversi tipi a seconda dello specchio acqueo in cui vengono usate e delle dimensioni e abitudini di vita delle specie da catturare, pur avendo permesso il sostentamento nei secoli di migliaia di popolazioni rivierasche, sono divenute vere e proprie trappole per gli animali marini. Stiamo parlando delle cosiddette “reti fantasma”, quelle che vengono disperse in mare e che, se non recuperate, continuano a “pescare” per moltissimi anni. È intuitivo che esse rappresentano un danno per la pesca e una minaccia per gli ecosistemi, uccidendo milioni di animali marini in modo indiscriminato; infatti, le specie che devono emergere per respirare, una volta intrappolate, annegano. Pensiamo ai cetacei, alle tartarughe marine, alle foche ma anche agli uccelli; si calcola che almeno 136.000 foche, leoni marini e grandi balene vengono uccise ogni anno dalle reti fantasma.

Dal 2000 al 2012, il National Marine Fisheries Service divisione del National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa) degli Usa, ha registrato, solo lungo la costa occidentale degli Stati Uniti, una media di 11 grandi balene impigliate in reti fantasma ogni anno. Dal 2002 al 2010, 870 reti sono state recuperate solo nello stato di Washington, con oltre 32.000 animali marini intrappolati all’interno.

Per non parlare poi dei danni causati ad alcuni ecosistemi ad altissima biodiversità, come il coralligeno: si ritiene che ogni anno, almeno 640.000 tonnellate di reti da pesca vengano disperse in mare, equivalenti a 90.000 autobus a due piani. L’Unione Europea stima che il 20% delle attrezzature da pesca usate in Europa vengano disperse in mare, equivalenti a oltre 11.000 tonnellate ogni anno. Nel solo Golfo di Venezia è stata stimata la presenza sui fondali di circa 60.000 reti. E ancora, solo per avere un’idea, nella baia di Chesapeake, negli Stati Uniti, ogni anno si perdono circa 150.000 trappole per granchio su un totale di 500.000; nell’isola caraibica della Guadalupa, poi, ogni anno vengono perse circa 20.000 trappole, con un tasso di perdita del 50%.

I dati dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) rivelano che l’86,5% dei rifiuti in mare è legato alle attività di pesca e acquacoltura e il 94% di questi rifiuti sono reti abbandonate. A ciò si aggiunga che una rete da pesca può resistere fino a 600 anni, perché i materiali con cui oggi vengono realizzate queste attrezzature, prevalentemente plastica, sono concepiti per essere resistenti e difficilmente degradabili. Per questo motivo, la quantità continuerà ad aumentare e gli impatti sugli ecosistemi marini peggioreranno. Si calcola che ogni tonnellata di attrezzature da pesca dispersa uccida almeno 1,25 tonnellate di pesce; per questo motivo il tema delle reti disperse è stato ampiamente approfondito dalla Fao, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di cibo e agricoltura, che nel 2009 ha realizzato uno studio per indagare il fenomeno e studiarne le possibili soluzioni.

Le reti fantasma rappresentano, quindi, anche un danno enorme per le comunità di pescatori, che vedono ridursi fino al 30% lo stock di pesce pescabile, poiché esse catturano circa il 5% della quantità di pesce commerciabile a livello mondiale. Le conseguenze drammatiche di tale fenomeno, sia a livello ambientale sia economico, sono ancora troppo sottovalutate. Il problema può essere risolto solo grazie a un’alleanza tra pescatori, aziende, istituzioni e subacquei, sia a livello globale sia di piccole realtà locali.

Delfini intrappolato in una rete

Cucciolo di delfino intrappolato in una rete (da Delfini Rimasti Intrappolati Nelle Reti)

Ma come e perché avviene la dispersione di reti e attrezzature da pesca? Ogni volta che una qualsiasi attrezzatura da pesca viene messa in acqua c’è il rischio che possa andare dispersa. Ci si riferisce non solo alle classiche reti da posta o da strascico, ma anche a palamiti, lenze, nasse e a tutti i tipi di trappole per crostacei, polpi. Le reti restano sul fondo perché si incagliano in rocce, secche o relitti oppure a causa di mareggiate o forti correnti; o anche per distacchi accidentali causati dal passaggio di imbarcazioni; o per condizioni meteo avverse, che richiedono l’abbandono per motivi di sicurezza ma anche per conflitti/interferenze con altri attrezzi da pesca.

Al contrario di quello che si potrebbe pensare, l’abbandono intenzionale è un evento raro, perché le attrezzature da pesca sono costose e nessuno vuole perderle. Quando accade è legato ad attività di pesca illegale oppure alla mancanza di opzioni di smaltimento, come avviene in alcuni paesi.

Le reti fantasma, inoltre, sono anche una delle fonti principali di inquinamento da plastica: studi del 2017 e del 2018 hanno evidenziato che potrebbero rappresentare dal 46% al 70% di tutta la macro-plastica presente in mare. Una volta frammentatesi, le reti danno luogo alle micro-plastiche e queste alle nano-plastiche, ancora più piccole, che vengono ingerite dagli animali marini ed entrano nella catena alimentare.

Per contrastare il fenomeno si può effettuare il recupero, il cui primo passo è l’individuazione delle reti abbandonate tramite la mappatura dei fondali per mezzo di strumenti tecnologici avanzati. I primi progetti di questo tipo sono partiti più di 10 anni fa come il progetto "Life ghost" avviato nel 2013, che ha riguardato la mappatura e il recupero di reti fantasma nel Golfo di Venezia, con un approfondito studio sugli impatti ambientali.

A livello globale, negli ultimi anni è nata la "Global Ghost Gear Initiative" (Gggi), la principale alleanza mondiale dedicata a risolvere il problema delle reti disperse. Lanciata nel 2015 dalla “World Animal Protection”, oggi raduna 95 organizzazioni in 6 continenti tra aziende, compagnie, associazioni e 14 governi anche europei come Regno Unito, Belgio, Paesi Bassi e Svezia. Oltre a molti progetti realizzati in tutto il mondo, la Gggi si occupa di studiare le buone pratiche e sperimentare tutte le possibili soluzioni al problema, insieme ai produttori di attrezzature, alle aziende, ai pescatori e ai governi. A partire dagli anni 2000 sono stati lanciati moltissimi progetti per il recupero delle reti fantasma in tutto il mondo, anche se ancora a macchia di leopardo.

L’Unione Europea ha inserito una strategia contro le reti fantasma nella normativa sulla plastica, la stessa che dal 2021 vieta molti oggetti usa e getta. Recentemente, inoltre, alle reti fantasma è dedicato un intero capitolo del progetto Marine ecosystem restoration (Mer), coordinato dall’Ispra in collaborazione con Marevivo, finanziato con parte dei fondi provenienti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr): entro il 2026 dovrebbero essere ripuliti 20 siti, ma fino allo scorso gennaio solo 5 sono stati oggetto di valutazione, portando finora alla rimozione di 7 reti da pesca; altre 10 saranno recuperate a breve.

Tartarughe intrappolate nelle reti

Due tartarughe marine di Olive Ridley (Lepidochelys olivacea) intrappolate in reti da pesca disperse in mare. (Immagine gentilmente concessa da Galbokka Sea Turtle Conservation & Research Center)

La rimozione non è sempre automatica perché l’obiettivo principale è quello di minimizzare i danni all'ecosistema marino. Grazie a un’ispezione visiva compiuta con robot sottomarini filoguidati (Rov-Remote operated vehicle), muniti di telecamera ad alta definizione, è possibile individuare le reti bersaglio una per una, raccogliendo tutte le informazioni necessarie per valutare se rimuoverle e come. All'Ispra spetta anche l'ok finale. Lo stesso vale per la fase di rimozione, di cui l'Ispra verificherà poi la riuscita.

In due dei 20 siti in programma, verranno effettuate particolari attività di valutazione post recupero, continuate nel tempo; si tratta del Parco Sommerso di Gaiola (Napoli) e del Mar Piccolo a Taranto, dove è presente la più grande popolazione di cavallucci marini del Mediterraneo.

È ovvio che il recupero non basta, anche se a livello locale esistono veri e propri team di subacquei che si dedicano solo a questo tipo di attività. Inoltre, se le tecnologie Gps favoriscono il recupero, molto importante è l’obbligo di segnalazione in caso di perdita (in Europa è già obbligatorio). Ma il fenomeno va anche prevenuto tramite innovazioni nella progettazione delle attrezzature e, soprattutto, attraverso incentivi e facilitazioni per lo smaltimento delle attrezzature vecchie, danneggiate o recuperate.

Ma che fare delle reti recuperate? Lo smaltimento sarebbe un ulteriore problema; pertanto, l’unica soluzione perseguibile è il loro riciclo, un processo mediante il quale le reti abbandonate vengono raccolte, pulite e trasformate in nuovi materiali. Dopo il recupero, le reti vengono sezionate e confezionate per essere analizzate in appositi centri e laboratori di analisi, dove si stabilisce se il loro recupero è davvero possibile e in che termini, in quanto si deve valutare quanto la lunga permanenza in mare abbia compromesso il loro potenziale di riciclo. La valutazione avviene esemplare per esemplare; si lavora per massimizzare il recupero di materiali come il nylon o altre plastiche, ma anche dei metalli contenuti nelle reti.

Il nylon, può essere riutilizzato per creare prodotti come capi di abbigliamento, tappeti, accessori o anche parti industriali. A tal proposito, l’azienda italiana Aquafil utilizza reti abbandonate e altri rifiuti in plastica per produrre costumi da bagno e abbigliamento sportivo. Un’altra azienda spagnola, la Ecoalf, ha dato vita una linea di maglioni realizzati con attrezzature da pesca recuperate.

Il progetto Marine Ecosystem Restoration mira anche a ricavare dalle reti recuperate energia, sfruttando il processo di pirogassificazione, una forma di conversione termochimica in cui si scalda la materia organica ad alte temperature al fine di scomporla, ottenendo il “syngas”, ricco di idrogeno. A temperature di oltre 800°C,  si ottiene direttamente una miscela di monossido di carbonio e abbondante idrogeno, utilizzabile anche per caricare le batterie dei veicoli elettrici o per qualsiasi altro simile uso. Sulla pirogassificazione i ricercatori stanno lavorando dal 2020 e hanno dimostrato che con ogni chilo di plastica trattata si può illuminare un appartamento per un giorno. Gli studiosi si propongono di realizzare un furgone che si sposta per limitare il trasporto di rifiuti e trasformarli in loco.

Benissimo, quindi, il riciclo ma la vera soluzione resta non abbandonare le reti e studiare materiali naturali biodegradabili per quelle del futuro.

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