Faccia a faccia: Calore

Il mondo è pieno di storie che aspettano di essere raccontate

Adrian Fartade
di A. C.

C’è chi racconta la scienza con i grafici, Adrian Fartade la racconta con le storie. Nato in Romania, cresciuto in Italia, ha unito teatro, passione per l’astronomia e divulgazione in uno stile che è tutto suo: empatico, accessibile, mai scontato. In questa intervista racconta com’è iniziato il suo percorso, come si costruisce un contenuto coinvolgente, cosa può fare davvero la scienza online, ma anche nei luoghi fisici e perché la divulgazione dovrebbe parlare anche, e soprattutto, agli anziani

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Adrian Fartade è divulgatore scientifico, autore e performer teatrale. Nato in Romania e residente in Italia, ha unito la sua formazione in storia e filosofia - con un percorso di studi focalizzato su scienza, astronomia ed esplorazione spaziale - con la passione per il racconto, dando vita a un linguaggio accessibile e coinvolgente, capace di portare l’astronomia (e non solo) nei teatri e su YouTube, attraverso il canale link4universe che conta quasi 500mila iscritti.

Come è iniziato il suo percorso nella divulgazione scientifica? C’è stato un momento chiave che le ha fatto capire che era questa la tua strada?

Non c'è stato un singolo momento chiave. Ho iniziato a fare divulgazione quasi senza accorgermene: raccontavo storie mentre facevo già teatro, e col tempo, attraverso attività legate al racconto, mi sono reso conto che la mia passione per lo spazio, l'astronomia e i miei studi in storia e filosofia della scienza potevano unirsi a ciò che facevo in scena. Con l’arrivo di nuove piattaforme, com’era all’epoca MySpace, ho scoperto che potevo portare tutto questo anche online. Non è stato un episodio preciso, ma piuttosto un periodo in cui ho capito che ciò che facevo era, a tutti gli effetti, divulgazione, comunicazione della scienza in senso più ampio.

Quali sono, secondo lei, gli ingredienti fondamentali per rendere un contenuto scientifico comprensibile e affascinante anche per chi non ha una formazione tecnica?

Una delle cose che fa davvero la differenza è avere chiaro il target a cui ci si rivolge: è molto diverso parlare a bambini, famiglie, adulti o studenti universitari. Spesso si parte con l’idea di spiegare tutto affinché sia perfettamente comprensibile, ma non sempre questo approccio si sposa bene con il desiderio di far vivere un’esperienza immersiva. Chi, ad esempio, ha un background da insegnante tende ad avere un approccio orientato all’apprendimento strutturato -  magari pensando “poi ci sarà un compito su questo”. Ma a volte credo sia più utile portare le persone prima nella foresta, far sentire l’ecosistema nel suo insieme, e solo dopo soffermarsi sui dettagli come, ad esempio, i vari tipi di corteccia. Se inizi direttamente con la lista dei 30 tipi di corteccia, rischi di scoraggiare chi non ha ancora fatto esperienza della foresta. Credo che ogni divulgatore, col tempo, trovi il proprio stile e il modo giusto per far immergere le persone nei contenuti, affascinarle e poi guidarle a osservare anche i dettagli.

Quanto è importante l’umorismo nella divulgazione? E come si usa senza rischiare di banalizzare i contenuti?

L'umorismo ha il grande vantaggio di essere qualcosa di molto istintivo, quasi “di pancia”, e riesce a connetterci in un'esperienza profondamente umana. La sua forza, nella divulgazione, non è tanto far ridere, ma creare un’atmosfera condivisa, informale, in cui le persone si sentano a proprio agio, libere di fare domande o anche di dire “non ho capito”, senza sentirsi in soggezione. Ma l’umorismo non è l’unico modo per ottenere questo effetto. Qualsiasi cosa riesca a smontare quella barriera di paura o soggezione verso la materia può funzionare: un tono poetico, un momento commovente. Ogni divulgatore trova il suo stile. Penso a Margherita Hack, che usava spesso l’umorismo con grande efficacia, oppure a Piero Angela, che invece puntava sulla meraviglia. Lui aveva quel modo rassicurante, quasi da nonno che racconta storie attorno al fuoco, che metteva tutti a proprio agio senza bisogno di battute. L’umorismo, perciò, è uno strumento tra i tanti. Quello che conta davvero è il coinvolgimento emotivo, la capacità di creare un contesto in cui le persone non si sentano davanti a una cattedra, ma parte di un’esperienza condivisa.

Adrian Fartade

Ha notato un cambiamento nel pubblico negli ultimi anni? È diventato più curioso, più critico, più esigente?

Quello che ho notato è che l’attenzione del pubblico è cambiata, anche per l’influenza dei social: la soglia dell’attenzione si è abbassata, e non solo tra i giovani. Passiamo tutti più tempo sui dispositivi, indipendentemente dall’età, anche se spesso il focus comunicativo resta sui ragazzi. In realtà, c’è sempre più curiosità anche tra gli adulti e gli anziani, e questo mi fa molto piacere. Non credo che la divulgazione debba essere solo per i giovani: oggi più che mai serve parlare a tutte le età. Viviamo più a lungo, e sono proprio le generazioni più adulte a dover prendere decisioni cruciali su temi come il cambiamento climatico o l’intelligenza artificiale. Quindi sì, il pubblico è cambiato: è più vario, più curioso, a volte anche più critico - e va bene così. Anche una domanda nata da un complotto o da una fake è comunque un punto di partenza: l’importante è che ci sia voglia di capire.

Parlando di social, secondo lei, le varie piattaforme stanno aiutando o complicando la diffusione del pensiero scientifico?

Come spesso accade, non è né tutto bianco né tutto nero: dipende da molti fattori. Una cosa che secondo me si dimentica spesso è che le piattaforme social sono spazi commerciali, privati, e il loro scopo non è educare, ma fare soldi. Pensare che i social siano nati per diffondere conoscenza è un po' come aspettarsi di imparare qualcosa mentre si fa la spesa tra le corsie di un supermercato: qualcosa può succedere, certo, ma non è quello il loro scopo principale. Si possono fare ottime cose anche online, ma bisogna ricordare sempre che sono strumenti, non fini. E sarebbe importante che quello che succede lì non si esaurisse lì, ma si traducesse anche in iniziative sul territorio, dal vivo, nei luoghi pubblici. In Italia abbiamo un'infrastruttura enorme e sottovalutata. Ed è un peccato, perché sono spazi ricchissimi di possibilità. Le biblioteche, ad esempio, sarebbero spazi ideali per la divulgazione, e potrebbero coinvolgere molto di più, fin dall'infanzia. Invece, a volte mi sembra che ci siamo fissati sull’idea che se non hai un canale Instagram o TikTok, allora non esisti. Quindi sì, i social possono aiutare, ma non sono tutto: servono anche luoghi fisici, relazioni dirette e un'idea più ampia e inclusiva di divulgazione.

Infatti, lei ha portato la scienza anche a teatro. Che differenza c’è tra raccontare la scienza sul palco e farlo su YouTube o sui social?

Raccontare la scienza dal vivo, a teatro, è completamente diverso rispetto a farlo online. Non è che online non funzioni o non sia bello, ma manca quella componente viscerale dell’interazione diretta col pubblico: non puoi davvero capire come stanno reagendo, non puoi cambiare qualcosa in corsa se senti che serve. Sul palco invece lo percepisci subito: respiri insieme al pubblico, capisci quando c’è attenzione, quando c’è emozione o sorpresa. Ogni replica è diversa, anche se il copione è lo stesso, perché le persone sono diverse ogni sera. E questo rende il racconto vivo, unico. Ma l’online ha un altro tipo di potenza: può raggiungere chi non sarebbe mai venuto a teatro, chi ti ascolta mentre cucina, mentre è in metro o magari in un momento difficile. Una rubrica video, anche piccola, può diventare un appuntamento importante nella giornata di qualcuno. Sapere che quella puntata c’è sempre, che puoi sentirla in cuffia, anche solo per sentirti meno solo, è qualcosa che ha un valore enorme. Credo che siano due linguaggi diversi, un po’ come cinema e teatro: uno è registrato e può arrivare ovunque, l’altro è dal vivo e ti cambia ogni volta. Entrambi hanno il loro spazio, ed entrambi possono raccontare la scienza in modi potenti, se li usi con cura.

Che consiglio darebbe a chi vuole iniziare oggi a fare divulgazione, magari partendo da una passione personale per la scienza?

Gli direi “Assolutamente sì, fallo!” C’è bisogno di molte più persone che facciano divulgazione. A volte sembra che siamo in tanti, ma in realtà siamo pochissimi rispetto a quanta curiosità c’è là fuori. E non parlo solo di fisica o astronomia: c’è spazio per raccontare la storia dell’architettura, della geologia, dell’arte… di tutto. Il mondo è pieno di storie che aspettano solo di essere raccontate. Spesso chi vuole iniziare pensa: “Sì, però questa cosa che mi appassiona è troppo strana, troppo di nicchia… a chi vuoi che interessi?”. Non è vero. Se riesci a raccontarla con autenticità, con passione vera, ci sarà sempre qualcuno disposto ad ascoltarti. I miei primi video parlavano di cose come “perché i mattoni hanno i buchi” o “perché le sedie hanno quattro gambe”. Eppure, funzionavano proprio perché ero sinceramente curioso. Quello che conta davvero è il desiderio di condividere. Quella sensazione di quando vedi qualcosa di bello e pensi: “Devo assolutamente farlo vedere a qualcuno!”. Se senti questo, hai già il motore giusto. Tutto il resto - tecnica, montaggio, scelta delle parole - si impara. Si impara tutto, anche cose più difficili. E poi, se posso aggiungere un pensiero finale: tutti parlano di fare divulgazione per i bambini, ma nessuno pensa mai ai vecchi. E invece c’è un grande bisogno di questo. Le persone adulte, anziane, hanno una voglia enorme di imparare, di capire, di partecipare. E spesso vengono dimenticate. Quindi, se stai pensando di iniziare a fare divulgazione, inizia e magari fallo anche pensando a loro.