Editoriale

La guerra e il silenzio

Avevamo deciso di dedicare il Focus monografico dell'Almanacco della Scienza alla guerra ben prima delle ultime settimane, in cui la cronaca non ha certo fatto mancare occasioni per ricordarci quanto questo tema sia di drammatica attualità.
di Marco Ferrazzoli
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Prima la strage keniota in cui sono rimasti vittime 150 giovani di fede cristiana: l'ultima, tragica tappa di un calvario che prosegue ormai da troppo tempo e che, solo nel 2014, ha visto morire ogni giorno per la loro fede oltre 10 cristiani, soprattutto in Africa e in Asia. Poco dopo quest'episodio, l'ennesimo video shock in cui l'Is, il cosiddetto Stato islamico, ha mostrato la decapitazione di 28 “appartenenti a una chiesa ostile”, e il fratricidio compiuto a bordo di uno dei barconi carichi di disperat

Avevamo deciso di dedicare il Focus monografico dell'Almanacco della Scienza alla guerra ben prima delle ultime settimane, in cui la cronaca non ha certo fatto mancare occasioni per ricordarci quanto questo tema sia di drammatica attualità.

Prima la strage keniota in cui sono rimasti vittime 150 giovani di fede cristiana: l'ultima, tragica tappa di un calvario che prosegue ormai da troppo tempo e che, solo nel 2014, ha visto morire ogni giorno per la loro fede oltre 10 cristiani, soprattutto in Africa e in Asia. Poco dopo quest'episodio, l'ennesimo video shock in cui l'Is, il cosiddetto Stato islamico, ha mostrato la decapitazione di 28 “appartenenti a una chiesa ostile”, e il fratricidio compiuto a bordo di uno dei barconi carichi di disperati in viaggio dalla Libia alla Sicilia, con 14 musulmani accusati di aver gettato a mare 12 cristiani. Su queste stesse rotte, infine, si è consumato il recente, apocalittico naufragio che ha provocato circa mille morti, dopo il quale le polemiche politiche e diplomatiche sono esplose roventi e l'Europa, come hanno titolato i giornali, ha dichiarato “guerra agli scafisti”, i trafficanti di uomini che lucrano senza scrupoli sul loro commercio immondo.

Al clamore di queste notizie fa però da contraltare quello che il Papa Francesco ha chiamato il “silenzio complice” della comunità internazionale, che assiste “muta e inerte”. E che di “silenzio” la coscienza occidentale sia colpevole lo conferma anche l'oblio nel quale è caduta la vicenda delle ragazze rapite in Nigeria da Boko Haram proprio un anno fa, illuminata dai riflettori mediatici con la loro tipica estemporaneità (la campagna 'Bring back or girls') e che ora l'Onu teme si sia conclusa tragicamente.

La guerra non è insomma un episodico fatto di cronaca: è una realtà con la quale conviviamo stabilmente, anche se la felice, prolungata assenza di conflitti sul nostro territorio nazionale ce lo fa dimenticare. Come italiani, in particolare, tendiamo anche a scordare quanto siamo già oggi impegnati nelle missioni internazionali: dal Libano a Baghdad, dove impieghiamo oltre 500 soldati, dalla Somalia al vicino Kossovo, in cui ancora si trascina la guerra civile apertasi dopo la dissoluzione dell'ex Jugoslavia. È evidente poi che un eventuale intervento in Libia, cioè sul fronte dell'avanzata dell'Is più prossimo ai nostri confini, ci porrebbe ancora maggiormente nel crogiuolo delle grandi crisi internazionali.

Non dobbiamo naturalmente dimenticare i segnali di speranza: sempre nelle scorse settimane la diplomazia internazionale ha fatto registrare due importanti, anche se molto controversi, accordi: quello sul nucleare iraniano e l'incontro tra Barack Obama e Raul Castro.

In questo scacchiere così composito come si può inserire la ricerca scientifica? Svolgendo il ruolo che le è proprio, cioè quello di studiare e cercare di capire. L'uso delle reti quale strumento di propaganda dei gruppi terroristi, per esempio, impone ormai una seria riflessione, come pure il controllo del Mediterraneo, impossibile senza una collaborazione normativa e tecnologica tra gli Stati rivieraschi ed europei, e l'analisi dei fenomeni migratori connesso alle crisi internazionali, indispensabile per contenere l'impatto di una problematica animata dalla disperazione e animatrice, a sua volta, di reazioni emotive contrastanti.

Del resto ricerca scientifica e militare sono sempre state strettamente connesse: dall'informatica alla ricerca spaziale, dalla fisica del '900 fino al recente sviluppo dei droni. Interrogarsi, riflettere, cercare di capire è quindi un dovere di tutti e in primis di coloro che, per mestiere, producono conoscenza. Gli orizzonti che ci si aprono davanti sono diversi: molti si domandano se non sia il caso di consolidare l'unificazione europea con un esercito e un sistema di difesa comune, mentre va compreso quanto la nuova dinamica dei conflitti renda ancora valida la tradizionale distinzione tra 'guerra' e 'terrorismo', cioè tra la violenza criminale e l'uso della forza in ambito militare regolamentato da istituti giuridici internazionali, come si è dibattuto in un recente convegno sui 'Masters of terror' organizzato dal think tank 'Il nodo di Gordio'.

A farci riflettere, infine, sono quest'anno anche alcuni anniversari, da quello dei 40 anni dalla fine del conflitto vietnamita a quello dei cento anni del genocidio armeno, ricordato sempre dal Papa con parole che hanno evidenziato quanto certe eredità storiche siano ancora visceralmente vive. Una valutazione che vale anche per le ricorrenze degli ultimi due conflitti che hanno coinvolto il nostro Paese e gran parte del mondo: il settantesimo della fine della seconda guerra mondiale e il centenario dell'inizio della prima. Due “miti di fondazione” del nostro stato nazionale e della nostra democrazia che, a distanza di tanto tempo, sono ancora fonte di divisione. Li abbiamo ricordati, presso la Biblioteca centrale del Cnr, presentando i libri di Aldo Cazzullo 'La guerra dei nostri nonni' e 'Possa il mio sangue servire', con lo storico Mauro Canali e il sociologo Paolo de Nardis e davanti a un pubblico di giovani. I primi ai quali è importante tramandare una conoscenza storica che per il futuro diventi coscienza condivisa.